Microaggressioni: cosa sono, come affrontarle e come evitarle

Quando si tenta di spiegare che cosa siano le microaggressioni ci si riferisce a qualcosa di piccolo, sottile, apparentemente insignificante, ma le cui conseguenze sono tutt’altro che leggere.

Che si tratti di una battuta, di un gesto o persino di un complimento, quello che distingue una microaggressione da un qualsiasi altro comportamento è la presenza di un sottofondo di bigottismo e discriminazione nei confronti di un’altra persona o gruppo di persone.

Definizione di microaggressione

Le micro-aggressioni sono un “leggero” – poi di fatto per nulla leggero e spesso inconsapevole – atto di bigottismo o discriminazione nei confronti di una persona per via di alcune sue caratteristiche specifiche come il genere, l’età, l’etnia, l’aspetto, l’orientamento sessuale, la classe sociale.

Distinguere una microaggressione e darne una definizione precisa è complicato, perché dipende molto dalla percezione di ognuno. Il termine fu introdotto per la prima volta negli anni Settanta dallo psichiatra americano Chester Pierce, ma in Italia se ne discute solo da pochi anni.

Le microaggressioni “aperte” o “nascoste”

Le modalità della microaggressioni: aperte o nascoste

Per quanto questa classificazione necessiti di una certa riconsiderazione, possiamo dire che esistano due tipi, due categorie di microaggressioni: quelle “aperte”, cioè compiute deliberatamente per ferire qualcuno, e quelle “nascoste”, perché messe in atto da attori almeno parzialmente inconsapevoli.

Quello che non cambia, però, è il genere di effetto, anche grave, che sono in grado di avere sulla psiche e sulla percezione di sé e del mondo di chi ne è vittima per un periodo di tempo prolungato.

Anche una domanda innocente, priva di cattive intenzioni, può ferire il nostro interlocutore quando il modo in cui viene posta contiene in sé una qualche forma di discriminazione. A contare e a fare la differenza non è la nostra intenzione, bensì il modo in cui il messaggio viene processato dal nostro interlocutore.

Quando compiamo una microaggressione, e ci rendiamo conto di aver offeso in qualche modo il nostro interlocutore, è bene capirne il perchè ed assumere un atteggiamento apologetico. Nascondersi dietro la giustificazione delle nostre intenzioni non serve, se non a continuare fare sentire totalemente incompresa la persona offesa.

Frasi come “non si può dire più nulla” hanno l’obiettivo e l’effetto di banalizzare e ridicolizzare un problema, riportandolo alla categoria delle sciocchezze di nessuna importanza. Viene anzi fatta un’inversione per cui l’aggressore si racconta come vittima di una censura perbenista che gli impedisce di esprimere sé stesso.
Qualsiasi nostra azione che, come conseguenza, abbia il dolore di una o più persone, non potrà mai essere ascritta a forma di espressione e libertà, ma sarà e resterà sempre una forma di violenza. E anche più violento, e volgare, è il tentativo di negarlo.

Tipologie di microaggressione

Probabilmente è capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di dire a qualcuno dai tratti somatici evidentemente appartenenti a un’etnia differente dalla “nostra”: “Beh, parli bene l’italiano”. Nulla di male qualora questo complimento venga rivolto ad uno straniero particolarmente veloce nell’apprendere la lingua. Il problema si pone quando lo si rivolge a chi si suppone erroneamente essere straniero solo per questioni estetiche, creando in lui un senso di “diversità” ed esclusione.

La matrice razziale è alla base di un gran numero di microaggressioni ed è quella che in qualche modo ha dato luogo alle prime riflessioni su questo genere di situazioni, ma non è l’unica.

Le microaggressioni di genere, per esempio, sono altrettanto diffuse e si basano su quel binarismo di genere radicato a tal punto nel nostro modo di pensare da portarci istintivamente a identificare sesso biologico e modo di essere di una persona. Ogni volta che un giudizio viene esteso ad un genere nella sua interezza, si opera una generalizzazione priva di senso che tende ad accorpare tutte le donne, o tutti gli uomini, come fossero legati indissolubilmente da caratteristiche genetiche ineluttabili e immodificabili. Questo è un potente strumento di interiorizzazione del disagio che porta molte donne, per esempio, a non trovare mai la self-confidence per mettersi alla guida e molti uomini a perdere il contatto con la propria sfera emotiva per paura di essere considerati effemminati.

Altra causa frequente di microaggressioni è l’orientamento sessuale. Anche in questo caso la varietà di situazioni è ampia, si va dal forzare ogni relazione omosessuale nei canoni di una relazione eteronormativa, all’identificare persone complesse e stratificate nel loro orientamento sessuale.

Chiedere a una coppia omosessuale “Chi fa l’uomo tra voi due e chi la donna?” non trasmette un messaggio rispettoso e comunica piuttosto una vizio di ragionamento al quale è bene prestare attenzione. Forzare canoni eterosessuali all’interno di una relazione omosessuale sottende ritenere che l’eterosessualità sia l’unica e giusta “normalità” a cui fare riferimento, facendo del resto una devianza. Ciò comporta, logicamente, la conseguenza di far sentire l’altro a-normale, sbagliato.

L’identità sessuale, peraltro, è sempre stata, e lo è tuttora, motivo di scherno tanto tra amici quanto in televisione o al cinema. L’effemminato e l’omosessuale nella cultura popolare sono figure di cui fino a ieri ci si prendeva apertamente gioco, con epiteti e gesti discriminatori di cui era, e in parte è ancora, considerato normalissimo ridere.

Ai motivi razziali, di genere e sessuali, si aggiungono l’aspetto fisico, la salute mentale, l’età, l’estrazione sociale e ogni campo, ogni ambito in cui gli esseri umani si differenzino gli uni dagli altri. Per quanto alcuni campi siano più sensibili di altri, quello delle microaggressioni è un atteggiamento mentale più che una fenomenologia specifica. Avviene a tutti, in proporzioni diverse, di essere ora vittime, ora autori, è perfettamente normale.

Attraverso le microaggressioni si rafforzano gli stereotipi e si replicano, senza necessariamente accorgersene, nelle interazioni sociali.
La microaggressione ha un impatto forte, sia sull’inconscio della vittima, sia sul subconscio sociale. Questo rafforza i pregiudizi e la tendenza a sentirsi giustificati nell’atto di discriminare uno specifico individuo o gruppo sociale.

Cosa succede quando subiamo le microaggressioni?

Subire micro-aggressioni genera in primo luogo sentimenti negativi come rabbia, frustrazione, ansia e vergogna, ma in un secondo momento cambia la percezione di noi stessi favorendo lo sviluppo di complessi, paranoie e comportamenti autodistruttivi.

La sensazione di avvilimento che spesso ci avvolge quando subiamo una microaggressione è solamente la punta dell’iceberg di una serie di emozioni negative che a lungo andare possono intensificarsi e compromettere la nostra autostima e fiducia in noi stessi.

Le microaggressioni creano spesso una dissonanza cognitiva tra ciò che viene percepito, una discriminazione, e ciò che viene detto esplicitamente. Pensiamo per esempio alla frase: “sei molto bella per essere una donna trans”! La persona può restare confusa perché quello che in apparenza sembra un complimento, sottende in realtà uno stereotipo, cioè che le donne trans non siano belle!

Diversi studi hanno dimostrato che una continua esposizione a microaggressioni può portare, sul lungo periodo, ad avere disturbi legati all’ansia, depressione, abuso di sostanze, disturbi alimentari, bassa autostima ed anche ideazioni suicidarie. Le microaggressioni, infatti, contribuiscono a creare il cosiddetto Minority Stress, ossia una situazione in cui l’appartenere a una minoranza comporta un carico eccessivo di stress, causato dal vivere in un contesto in cui pregiudizio e discriminazione sono costantemente presenti, sia a livello implicito che esplicito. Questo comporta un peso aggiuntivo che, sommandosi ai normali stressors della vita quotidiana, diventa cronico e ha conseguenze a lungo termine sulla salute mentale.

Tipologie di reazione alle microaggressioni

Come detto, non esiste una definizione precisa e univoca di micro-aggressione, laddove a fare la differenza spesso è il percepito del singolo individuo. Ognuno di noi può infatti reagire in maniera diversa a qualsiasi domanda, battuta o complimento. Si identificano però tre macrocategorie di reazioni.

La prima, detta di coping passivo, prevede che la persona, percepita l’offesa, decida di ignorarla.

La seconda, detta coping di confronto, vede la vittima confrontarsi con il proprio interlocutore per difendere sé stessa, con un’affermazione positiva del proprio valore e del proprio diritto.

Per finire abbiamo il coping protettivo quando la persona, riconosciuta l’aggressione, temendo per la propria sicurezza decide di ignorarla per tutelare la propria incolumità

Sebbene non esista un modo unico e “giusto” di reagire ad una microaggressione, si è visto come uno dei fattori di protezione consista senz’altro nell’avere un contesto in cui poter dare voce alle proprie emozioni e ai vissuti che sono stati svalutati, riconoscendo di conseguenza la microaggressione stessa. Una volta riconosciuta è bene valutare la situazione per capire quali siano le strategie di coping attuabili, chiedendosi per esempio quali siano le possibili conseguenze di una risposta.

Nella realtà dei fatti, però, la reazione che statisticamente vediamo avere a chi subisce microaggressioni non è necessariamente estroversa, e dunque rivolta al manifestare all’altro, più o meno violentemente, i propri sentimenti, ma di natura introversa, rivolta quindi a sfogare su sé stessi una frustrazione indotta dall’esterno, con conseguenze anche seriamente autodistruttive.

Per molte persone, almeno in una qualche fase della loro vita, non è semplice entrare in contatto con le proprie emozioni e i propri bisogni. L’insicurezza e il senso di colpa sono spesso dietro l’angolo, pronte a far vacillare le certezze e i valori che con tanta fatica si cerca di tenere saldi. Le microaggressioni fanno leva proprio su queste insicurezze. In molti casi le persone che le subiscono non sono in grado di razionalizzare il proprio sentito e rendersi coscienti di quanto certi commenti stiano facendo loro del male, con il risultato di chiudersi in se stesse e nella più comune delle ipotesi, autocolpevolizzarsi e frustrarsi.

Non sempre ci si rende conto razionalmente del proprio disagio, e di quale sia la sua causa, quando per diversi motivi non si arriva a riconoscere le aggressioni e a comprenderne le conseguenze.

Laddove invece esista una consapevolezza che quegli atteggiamenti siano discriminatori, il rischio è che ciò provochi una rabbia ed un senso di insicurezza che non ti abbandonano mai, al punto da spingerti a rinunciare a uscire, partecipare ad attività sociali e persino a colloqui di lavoro per evitare di trovarti in situazioni spiacevoli.

Essere consapevoli dell’esistenza delle micro-aggressioni, delle loro manifestazioni e delle loro conseguenze, può aiutarci a riconoscere quando le subiamo e quando le mettiamo in atto, riducendo così la possibilità di rovinare la vita a qualcun altro, evolvendo di conseguenza la nostra empatia per essere persone migliori e avere relazioni più sane.

Dove avvengono le microaggressioni?

Non c’è un luogo preciso dove avvengono le microaggressioni, poiché la loro sottigliezza e, in alcuni casi, inconsapevolezza, fanno in modo che possano avvenire a scuola o a lavoro come in famiglia o col proprio compagno o compagna, tra amici o sconosciuti.

A scuola, per esempio, non è raro vedere bambini presi di mira da insegnanti che, per periodi prolungati, ed in un’età estremamente delicata, si rivolgano a loro con appellativi sminuenti.

Etichettare gli studenti con soprannomi, o rimarcare continuamente alcuni tratti o caratteristiche che apparentemente li contraddistinguerebbero, è dannoso nella maggior parte dei casi. “Il dormiglione”, per esempio, o “il ritardatario”, sono appellativi gratuiti che poco hanno a che fare con la simpatia e che non hanno, nella maggioranza dei casi, nessuna speranza di avere un effetto educativo e formativo. Piuttosto si riducono ad essere appellativi sminuenti e umilianti che, specie in tenera età o in adolescenza, possono portare a conseguenze profondamente negative.

Questo genere di situazioni, da un lato crea un senso persistente di inadeguatezza nel bambino, che rischia di accompagnarlo fino all’età adulta, dall’altro, inoltre, legittima i compagni di classe a perpetrare a loro volta lo sfottò, rinforzando il processo di interiorizzazione del trauma.

Un bambino in questo genere di situazioni tende a sentirsi solo e debole, di fronte ad un accerchiamento che può avere o l’effetto di farlo chiudere in sé stesso o quello di portarlo avere reazioni verbalmente o fisicamente violente. La conseguenza, variabile a seconda della sensibilità del bambino, è di fare di quella discriminazione una parte consistente della sua percezione di sé, rendendo precaria e complicata la formazione di quell’amor proprio che, negli anni, dovrebbe avere il compito di proteggerlo da situazioni e relazioni tossiche.

È importante allora che al bambino siano dati gli strumenti e la forza per reagire esternando assertivamente il proprio malessere, prima con l’insegnante e poi con i propri coetanei, così che l’insegnante per primo sia messo di fronte alle proprie responsabilità e possa riconoscere i propri errori, e che di conseguenza i compagni siano richiamati e istruiti ad avere atteggiamenti più empatici e rispettosi.

Il genitore in questo senso ha il potere di offrire al bambino un atteggiamento di ascolto paziente, attivo e partecipato, fatto di un interesse reale per la sua quotidianità e i suoi sentimenti, con una valorizzazione della sua esperienza e del suo racconto di essa. Questo gratificherà il bambino, offrendogli quella stima di sé che lo aiuterà a delineare i limiti della propria sfera personale e a capire quali atteggiamenti altrui siano discriminatori e dunque inaccettabili, e quali strategie dialettiche sia opportuno introdurre per reagire.

I microinterventi: come sarebbe meglio reagire quando si subisce una microaggressione

Sebbene spesso l’istinto sia quello di rispondere ad una microaggressione in modo passivo-aggressivo, ad esempio con una battuta, questo spesso non risulta funzionale. Un comportamento assertivo invece sembra essere molto più utile, poiché permette alla vittima di esprimere il proprio dolore e al perpetratore di riconoscere il proprio errore senza sentirsi giudicato come persona. Una comunicazione assertiva prevede infatti che la persona aggredita possa spiegare con toni pacati e chiari cosa le ha fatto male e come si sia sentita, senza puntare il dito contro l’altro. È più efficace dire “questa frase mi ha ferito” piuttosto che “tu sei omofobo!”, quest’ultima frase infatti rischia di far mettere l’altro in una posizione di difesa e non di confronto.

Chi subisce delle microaggressioni ha il compito di cercare di disinnescarne l’innesco con quelli che il professor Derald Wing Sue chiama microinterventi, cioè, risposte che da un lato disarmano la microaggressione, dall’altro educano l’interlocutore e gli fanno capire che quello che ha detto era fuori luogo.

L’assertività si può definire come la capacità di un individuo di riconoscere le proprie esigenze e di esprimerle all’interno del proprio ambiente con toni decisi ma non per questo arroganti e supponenti. Si tratta, in pratica, di una modalità di comportamento tesa all’uguaglianza e al rispetto che permette alle persone di difendere i propri diritti e le proprie idee avendo cura, al contempo, di quelle altrui.

Non è necessario o producente arrabbiarsi con una persona che ci faccia una microaggressione, bensì occorre fargli notare quanto le sue parole incarnino pregiudizi razziali, sessuali o di genere che non dovrebbero più avere spazio nelle nostre relazioni sociali. Nessuno è immune a questi pregiudizi, nemmeno noi, ma possiamo aiutarci a vicenda a riconoscerli e a rivederli fino ad eliminarli.

Come possono reagire le persone quando gli si fa notare di aver messo in atto una microaggressione?

Non sempre riceveremo dai nostri interlocutori risposte comprensive e collaborative però.

Ogni persona ha una propria sensibilità specifica e unica, e questo vale tanto per chi subisca una microaggressione quanto per chi ne sia autore. Per questo, a fronte di una nostra reazione, che sia passivo-aggressiva per mezzo di una battuta o assertiva e ben argomentata, ci potrà essere una contro-reazione molto diversa.

Il nostro interlocutore può farsi apertamente ostile, col rischio che la sua aggressività passi dal verbale al fisico. In questo caso è sempre opportuno valutare l’utilità di avere un chiaro piano di uscita per lasciare lo spazio di conversazione in modo sicuro.

In altri casi il nostro interlocutore potrebbe mettersi sulla difensiva, accampando scuse e giustificazioni che spesso non avranno molto a che fare con la ragione ma faranno leva su stereotipi, luoghi comuni e frasi retoriche. L’importante in questi casi è rimanere molto saldi sui propri punti e valori e, eventualmente, interrompere la conversazione in maniera temporanea o definitiva, qualora l’emozione ci sovrasti o non si intravedano spiragli.

Ascoltare senza giudizio il prossimo, è il primo passo per diventare empatici e rendere le relazioni umane più sane e più equilibrate.

Esiste poi il caso di una reazione ironica e sdegnosa, con l’interlocutore volto a far passare le proprie parole o azioni come innocue. Anche in questo caso è importante mantenere una posizione salda, ricordandogli l’impatto reale delle sue azioni e, a seconda dei casi e della propria predisposizione emotiva, invitandolo ad un tipo di conversazione più profonda.

In ultima, l’interlocutore potrebbe rispondere in maniera apologetica, mettendo sul tavolo la propria vergogna e i sensi di colpa. Qualora le scuse ci appaiano sincere e non ostentate, può essere utile e persino soddisfacente, ma non obbligatorio, accettarle. Laddove però queste dovessero apparire insincere o solo parziali, bisogna ricordarsi di non avere il dovere di far sentire meglio chi un istante prima ci ha fatto del male. Per questo motivo, le scuse possono anche essere rigettate, invitando l’aggressore ad approfondire le ragioni della questione fornendogli ulteriori spiegazioni o fonti a cui attingere.

Come comportarci quando siamo noi gli autori di una microaggressione?

Qualora fossimo noi a offendere qualcuno, il suggerimento è quello di non mettersi sulla difensiva se qualcuno si dice offeso da una nostra frase, ma di offrire un ascolto paziente e comprensivo, senza farsi trasportare dalle emozioni, poiché nessuno di noi è realmente immune ai pregiudizi razziali, sessuali e di genere, l’importante è farne occasione di riflessione e automiglioramento.

Individuare gli stereotipi e i pregiudizi che influenzano la nostra relazione con gli altri ci renderà persone più sensibili e aperte, ampliando la nostra visione del mondo e del prossimo, aiutandoci a stringere relazioni più forti e sane con le persone che abbiamo attorno, in tutti i contesti sociali.

Conclusioni: imparare ad ascoltare gli altri e allenare la propria sensibilità

Sbagliare e dire cose fuori luogo è impossibile da evitare in toto; quindi, non è questione di concentrarsi sull’intenzionalità. L’obiettivo è imparare ad ascoltare le esigenze altrui e di conseguenza migliorare noi stessi, anche grazie agli errori commessi. Il punto è imparare a riconoscere quegli errori. Dire “non l’ho fatto apposta” o “non volevo offendere” porta invece a non riconoscere il sistema di valori che si è andati a colpire, anche se involontariamente.

Sottovalutare le conseguenze delle microaggressioni sostenendo che dare loro troppa importanza leda il diritto e la libertà di ciascuno di dire ciò che desidera, creando un clima in cui si debba stare attenti a ciò che si dice, significa rifiutarsi di capire quale sia l’intento di queste riflessioni. Gli errori e gli inciampi capitano, sistematicamente, a chiunque e non occorre farsene una colpa eccessiva. Bisogna invece imparare a capire le reazioni delle persone con cui parliamo e ammettere l’errore anche quando non è volontario, cercando di non ripeterlo.

L’obiettivo di queste nostre riflessioni non è dare un perimetro certo e indiscutibile di cosa sia una microaggressione e di quali siano le strategie per sconfiggerle, perché, come detto, quella che una persona potrebbe ricevere come una semplice battuta, per un’altra potrebbe essere causa di sofferenza. Il punto è spingere ognuno di noi a sviluppare quel minimo di sensibilità utile a capire che non tutte le persone sono uguali, e che per questo in ogni rapporto è fondamentale utilizzare un metro diverso, figlio di una conoscenza che si approfondisca col tempo e di un atteggiamento di disponibilità all’ascolto. Tutti noi facciamo errori nella comunicazione, e non c’è niente di più sano del saper chiedere scusa.

Impariamo ad essere più empatici ascoltandoci l’un l’altro, impariamo dai nostri errori riconoscendoli per cambiare rotta. Smettiamo di cercare giustificazioni e impariamo a riconoscere sistemi di valori diversi dal nostro, senza sottovalutare mai l’impatto delle nostre azioni sul vissuto e sui sentimenti di un’altra persona.

Tutti sbagliamo, tutti siamo l’aggressore di qualcuno, in qualche misura, la differenza la fa la risposta che diamo alla reazione che ci arriva. Impariamo a chiedere scusa senza metterci sulla difensiva, a non essere vittime noi stessi delle nostre emozioni negative, affinché non ci trasportino e controllino. Nessuno è esente da errori, l’importante è non perseverare, cercando al contrario di riparare ai torti commessi ascoltando pazientemente e offrendo il nostro aiuto, laddove ci sia possibile fare la differenza in positivo.

Autori di Riferimento

– Prof. Derald Wing Sue – Dott.sa Sara Colognesi – Chester Pierce – Tori DeAngelis – Sahana Mathiarasan – Ella F. Washington – Alison Hall Birch – Laura Morgano Roberts – Kevin L. Nadal – Diane Goodman – Gina C. Torino – David P. Rivera – Christina M. Capodilupo – Tianyi Xie

Storie di persone, di relazioni umane, per scoprire come la violenza si nasconda nella normale quotidianità di tutti noi.

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