Un quadro sincero, a tratti dolce, a tratti spietato, della vita di Sandrà, interprete e traduttrice parigina, vedova e con una figlia di otto anni, schiacciata dal peso del lutto e dell’abbandono dei propri affetti.
La trama
Un quadro sincero, a tratti dolce, a tratti spietato, della vita di Sandrà, interprete e traduttrice parigina, vedova e con una figlia di otto anni, schiacciata dal peso del lutto e dell’abbandono dei propri affetti.
Suo padre, professore universitario di filosofia, da un anno soffre l’aggravarsi di una malattia neurodegenerativa che gli sottrae ciò per cui la figlia l’ha sempre distinto e amato, la sua mente, il suo pensiero, rendendolo giorno dopo giorno meno presente. Al dolore del lento abbandono, fa da contraltare il riaccendersi della passione per Clèment, amico del suo defunto compagno e nel mezzo di una crisi matrimoniale, resa ancora più complessa dalla presenza di un figlio.
Un mondo che se ne va, uno che arriva, e uno – quello presente – rappresentato da Sandrà e Clèment, confuso e in balia del caos, vissuto tra la disillusione per una vita che non conosce piani e la necessità di adattarsi a qualsiasi direzione il vento decida di prendere, senza alcuna tregua emotiva.
Parliamone senza fare spoiler
“Un bel mattino”, titolo originale “Un beau matin”, è un film francese del 2022, per la regia di Mia Hansen-Løve (autrice di “Sull’Isola di Bergman” e “L’Avenir” tra gli altri) con Lea Seydoux splendida interprete della protagonista, Sandrà, personaggio con forti tratti autobiografici della regista.
Come anticipato nella presentazione, il film apre una finestra sulla vita di una donna parigina tra i 30 e i 40, vedova, con una figlia, un padre malato e un precario equilibrio personale, lavorativo e famigliare da proteggere giorno per giorno. Lo spettatore è accolto nella quotidianità della donna senza introduzioni o presentazioni, con una porta che si apre sulla casa della nonna, ultranovantenne, che in poche battute, rende immediatamente l’immagine della vita che il film si impegnerà a confermare per 112 minuti: fragile, imprevedibile e per lo più ingovernabile. Da lì, vediamo Sandrà, con sua figlia Linn, specchio della sua speranza in un futuro migliore e più sereno, immergersi nella propria quotidianità, in una vicenda che non ha nulla di straordinario, eroico o eccezionale, poiché rappresentativa di quella che è la vita normale della ragazza, e dell’autrice.
Il film, come dice il padre di Sandrà metanarrativamente, non si struttura in una vicenda dall’inizio-svolgimento-fine, ma procede per salti e balzelli con l’unica bussola dell’ordine cronologico e naturale degli eventi. Non ci si ferma un secondo, non ci sono monologhi interiori né scene prolungate a favorire il tempo per la riflessione nei personaggi e nello spettatore. Il montaggio è asciutto, minimale nel mostrare tutto quanto necessario a descrivere il procedere degli eventi, e delle emozioni, senza mai eccedere col rischio del cadere nel patetico e suscitare pietà.
Eppure, tu, durante il film, non fai che riflettere, interrogarti, guardarti dentro e farti domande, con la paura di perderti un dettaglio importante, una smorfia significativa, un gesto determinante. E i personaggi, mai descritti, mai “spiegati”, si raccontano e si approfondiscono nel loro agire, nel loro parlare, esplicitando i propri complessi e le proprie paranoie, oltre ai lati più profondi del proprio carattere.
Le espressioni di Lea Seydoux sono perfette nel descrivere il suo carattere insicuro, instabile, piegato dalla paura dell’abbandono ma al contempo dritto, forte, resiliente, motivato dalla vitale necessità di essere punto di riferimento e guida per sua figlia, Linn, figura estremamente viva, dolce e innocente, ma anche fragile e profondamente sensibile rispetto al dolore e le difficoltà che avvolgono sua madre e, più in generale, la sua famiglia.
Clèment, interpretato da Melvil Poupaud, è un astrochimico e spesso gira il mondo per lavoro, a caccia di pulviscolo stellare e reperti meteoritici. Dal canto suo, mostra diversi tratti di passività rispetto alla vita, coinvolto in un matrimonio, a sua detta, infelice, ma incapace di voltar pagina, cambiare direzione, un po’ per dovere nei confronti della moglie, del figlio e dell’abitudine, un po’ per la paura di una rivoluzione che porti caos nel suo apparente equilibrio. Capiamo dal primo incontro con Sandrà come lui sia attratto da lei, e come al contempo si senta imprigionato nel ruolo dell’amico – ricordiamoci che era amico del defunto marito di lei – conscio di non avere “il diritto” di chiedere nulla di più alla donna, a costo di mettere in crisi i reciproci, traballanti, equilibri. A sparigliare le carte, però, arriva il fatto che sia lei, per prima, a mostrare attrazione per lui, in maniera sempre più palese col passare delle scene e degli incontri, fino ad innescare quello che già il trailer ci presenta come un rapporto estremamente intenso e contrastato.
“Un bel mattino” è un film d’autore, figlio di una scrittura estremamente sofferta, onesta e personale, di un’autrice spaventata e resa insicura dalla paura di banalizzare o rendere patetica quella che è la storia di personaggi drammatici ma reali, e che proprio da questa paura e insicurezza trova la strada per comporre un racconto intenso, violento ma carico di speranza, e positivo, nella sua umana tragicità. I suoi personaggi arrivano potenti all’immaginario del pubblico, specie di chi trovi modo di riconoscersi nei contesti descritti.
Note tecniche
Parigi non è la magica e romantica città di “Midnight in Paris” di Woody Allen, la fotografia non cerca mai i simboli di Parigi per farne cartoline e quadri, ma vi porta su autobus, panchine, taxi, o a vagare per i corridoi di ospedali pubblici, a immergervi in una Parigi vera, opaca, vissuta, che potrebbe essere Milano, Berlino, o una qualsiasi città europea.
La color, molto insatura, oscilla tra il giallo delle prime ore del mattino in una tiepida giornata autunnale – a tingere le scene dei colori del ricordo, della malinconia – e il freddo di un concitato pomeriggio invernale, a sottolineare l’incedere spietato del tempo, della vita e del caos che la accompagna, in un continuo rimbalzare tra il dolore e la passione, la disperazione e la speranza, il passato che se ne va, il presente carico di ansie, ed un futuro cui far spazio.
Alternanza sottolineata e potenziata da un montaggio, come detto, essenziale, che senza soluzione di continuità rimbalza i personaggi, e con essi gli spettatori, da un evento all’altro, spesso senza manifestare particolari legami di consequenzialità, ma al contempo senza spaesare o confondere.
La regia, anch’essa minimale, fa largo uso del 35mm per rendere costantemente proporzioni umane e naturali, senza drammatizzare eccessivamente momenti e situazioni che normalmente lo prevederebbero, così da spogliare tutto il film di qualsiasi tono pietistico.
“Non bisogna far pietà alle persone, bisogna semplicemente vivere per quelli che si è.”
In un certo senso, è quello che dice il film; è la visione che ha l’autrice della vita, ed il modo in cui ha scelto di raccontare la sua storia.
Regia, montaggio, fotografia, persino le musiche, centellinate rispetto al silenzio che spesso avvolge gli ambienti, concorrono a dar vita ad una narrazione sobria, essenziale, che non ostenta mai il dolore, la tragedia, ma lo rappresenta esattamente così com’è nella quotidianità di persone normali, prive di particolari preoccupazioni economiche, con un lavoro, una famiglia e una cerchia di amici.
Non si tratta di casi di emarginazione o esclusione sociale, in sostanza, e la regista dosa alla perfezione gli ingredienti al fine di rendere un’immagine perfettamente rappresentativa e, per questo, fortemente coinvolgente, della realtà, nei suoi aspetti più crudi. Non si lascia spazio a favoleggiamenti e morali, ma solo al costante incedere del tempo e della vita, nei suoi aspetti più dolci come in quelli più dolorosi, in un mosaico affascinante, vivo, nella varietà delle sue tessere.
La rappresentazione della storia, in questi termini, crea una comunanza, tra personaggi e spettatori, uniti nella percezione di come vi sia un’unica “umanità”, un unico grande viaggio dalle tappe simili per ognuno di noi, ed in questo raggiunge perfettamente il proprio scopo: farci sentire meno soli e dare speranza, aaffinché, per tutti, un giorno, sorga il sole su un bel mattino, momento di fugace e perfetta bellezza, capace di dare un senso ad una vita che, anche nei momenti più oscuri, abbia un orizzonte luminoso verso cui tendere.
Il nostro punteggio al film
Normalmente si dovrebbe dare un voto, al termine di una recensione, e non ci sottrarremo alla pratica, ma in questo caso, è corretto tenere conto di come si tratti di un film, per l’appunto, d’autore, figlio della volontà forte di raccontare una storia in modo personale, e per questo, fuori da determinati schemi narrativi che volendo, le avrebbero potuto conferire maggiore potenza.
In soldoni, non siamo di fronte ad un’esplosione espressiva come nel caso di “Quasi amici – Intouchables” di Olivier Nakache e Éric Toledano, perché non è assolutamente ciò che il film vuole fare. Ed in questo, è perfetto così com’è, nudo, crudo, imparagonabile ad altre opere – specie hollywoodiane – che facciano un uso più massivo di retorica. Questo fa in modo che, per chi si riconosca nei personaggi, nelle vicende, il film possa tranquillamente attestarsi alla soglia del 5 stelle su 5, mentre per chi abbia esperienze di vita diverse, o, semplicemente, più acerbe, il film sia da 3 su 5.
Noi, nel nostro giudizio, in una ricerca di una comunque impossibile “oggettività”, ci adagiamo su un 4 su 5, a sottolineare gli indubitabili meriti di una produzione e di una scrittura eccellenti. Consigliamo caldamente, la visione in lingua originale, non perché il doppiaggio sia pessimo (la doppiatrice di Lea Seydoux, in particolare, è molto brava) ma perché il mix, in un’opera che tratta il suono in maniera così, ancora una volta, minimale, necessariamente, rovina la spazialità del suono e diminuisce il senso di immersione, vero fiore all’occhiello del film.