The Holdovers: recensione film di Alexander Payne

A guardare il trailer di “The Holdovers” è difficile non farsi colpire immediatamente da una pasta dell’immagine e da una fotografia che richiamano, fortissimamente, il cinema di 50 anni fa. E, personalmente, di primo impatto, è subito stat una gioia per gli occhi.

Paul Giamatti sembra essere stato strappato al 2024 per essere trasportato nel suo vero mondo, tanto è perfetto nei panni di Paul Hunham, professore di storia antica alla Barton Academy, un collegio del New England, non lontano da Boston.

Trama e personaggi

La trama del film muove dalle vacanze di Natale del 1970. Quattro ragazzini, di diverse età, non potendo tornare a casa dai genitori durante le festività, sono obbligati a restare nel collegio, e a sorvegliarli viene assegnato il professor Paul Hunham. Egli riceve questo incarico come punizione per aver bocciato il figlio viziato e ignorante di una ricca e potente famiglia. Quel genere di famiglia che, se compiaciuta, stacca grossissimi assegni a favore dell’istituto frequentato dal proprio figlio. “Se” compiaciuta.

E di fronte a dei grossi assegni, il fatto che il giovane rampollo di questa famiglia non distingua Alessandro Magno dal Re Artù de “La Spada nella Roccia”, in fondo, fa poca differenza. Ma non per Paul Hunham, che infatti lo boccia.

Da questo comportamento, e dal modo in cui in generale parla dei suoi studenti, intuiamo che il personaggio di Giamatti sia un professore inflessibile, severo, tanto innamorato della storia e della cultura classica, quando disilluso rispetto alla possibilità di tramandarle ai suoi studenti. Il suo atteggiamento, in classe, rispecchia proprio questa sua attitudine negativa rispetto ai ragazzi, che di rimando lo detestano.

A questo punto conosciamo il co-protagonista, Angus Tully, interpretato da Dominic Sessa. Questi è un ragazzo tanto brillante quanto indisponente e ribelle. Riesce facilmente nello studio, ma è portato caratterialmente alla frizione, tanto coi compagni quanto con i professori, al punto da essere stato espulso da diverse accademie prima di giungere alla Barton.

Inizialmente non conosciamo il destino di suo padre, ma di sua madre conosciamo ben presto la tendenza a mettere il proprio figlio in secondo piano, rispetto a sé e ai propri interessi. Infatti, all’ultimo istante, comunica ad Angus che rimarrà a scuola per le vacanze di Natale, perché lei è intenzionata a partire col suo nuovo compagno in luna di miele. Da qui, intuiamo i motivi della rabbia e della disillusione alla base del carattere di Angus.

Altro personaggio fondamentale, a chiudere il trio, è Mary – interpretata da Da’Vine Joy Randolph –  la responsabile delle cucine, una donna nera il cui figlio, diplomatosi di recente alla Barton, non potendo permettersi l’iscrizione all’università, si arruola, e muore, diciannovenne, in Vietnam.

Mary attira immediatamente l’attenzione perché è una donna nera che nell’America degli anni ’70, epoca in cui il razzismo rappresentava un ostacolo persino peggiore di oggi all’affermazione sociale. Lotta e si sacrifica per dare a proprio figlio un’educazione in grado di garantirgli una vita migliore.

Da queste premesse, su queste basi, si potrebbe dare il via a quel genere di film che, un po’ seguendo le tracce di un “Quasi Amici”, dia vita ad un incontro scontro generazionale in grado di ribaltare le vite tanto dei personaggi quanto degli spettatori.

C’è così tanta carne al fuoco, e il film continua ad aggiungerne per tutta la sua durata, che si potrebbe sfamare un intero esercito. Di leoni. Digiuni.

Solo che il fuoco si spegne al primo soffio di vento. E dopo il vento inizia a piovere.

Il film sembra essere confuso rispetto alla strada da prendere e percorrere. Inizialmente, e per una porzione di film troppo larga per essere considerata puramente accessoria, sembra che a restare nel collegio siano in cinque, oltre al professore. Tutti ragazzini, di varie età e con vari problemi, che il regista ci presenta fin troppo bene per considerarli sin da subito delle comparse. A loro viene dedicata una quantità di tempo, a schermo, che fatichi a non considerare sprecata quando, di punto in bianco, vengono sottratti sbrigativamente alla storia. E con loro se ne vanno molte delle premesse interessanti che la storia sembra garantire.

Da quel punto la storia dovrebbe concentrarsi su Paul e Angus, sul loro conflitto caratteriale e generazionale, provando ad estrarre da Angus le radici del suo dolore e della sua ribellione, e da Paul i motivi della sua disillusione e del suo annientamento sociale.

E l’intenzione del regista e dello sceneggiatore è effettivamente questa.

Solo che non ci riescono. O, se ci riescono, lo fanno solo in parte. Superficialmente. Le emozioni dei nostri protagonisti ci arrivano solo come un eco distante. Le loro interazioni sono prive di intensità, i loro dialoghi sono piatti, monchi. Il loro scontro è solo simbolico, mai concettualmente e verbalmente violento.

Valutazione del film

A fronte di una fotografia splendida, con un utilizzo di luci e colori a nostro parere perfetti, la regia è tiepida e scolastica. Non c’è un’inquadratura sbagliata o fuori posto, ma queste arrivano semplicemente a illustrarci linearmente la storia, non diventano mai strumento espressivo. La camera è spesso ferma, statica, formale. Da 6,5 in pagella, ma quel 6,5 che dai allo studente bravo ma scazzato, che ha portato a casa il risultato sfogliando distrattamente il libro per cogliere quelle due o tre nozioni utili a consegnare il compitino poco più che minimo.

Il film ti convince deliziosamente, con la sua fotografia e con le scenografie allestite, di essere nel 1970, e per farlo non usa i toni patetici della nostalgia, quella per cui il meglio ce lo siamo lasciati alle spalle ed oggi, al confronto, il mondo fa schifo. Per un attimo il professore di storia prova anche a raccontarsela questa storia. Ma quando poi arriva al momento della verità, è conscio lui stesso che di anno in anno, di decennio in decennio, le pulsioni, i desideri e le paure umane rimangono sempre quelle. E il mondo cambia, ma è anche sempre lo stesso, dall’antica Grecia agli USA degli anni ’70.

Paul, Angus, Mary, e gli altri personaggi comprimari, hanno intorno a sé una straordinaria struttura narrativa, ma questa rimane sempre e solo in potenza, perché ogni volta che viene imboccata una strada, questa è percorsa per molto poco prima di venire abbandonata.

Di Paul si accenna ad un passato amoroso che non viene mai esplorato, a certe sue condizioni mediche di cui non veniamo a sapere molto, di suoi possibili “flirt” che si estinguono ancora prima di prendere una qualsiasi forma. Non è obbligatorio che la storia del protagonista veda ad un certo punto una relazione amorosa, ma se presa in considerazione la cosa, narrativamente va trattata con più attenzione. Idem per il personaggio di Angus. Ad un certo punto, ad una festa, succede qualcosa da questo punto di vista, tra lui ed una ragazza appena incontrata. Ma la scena risulta poco sensata. Non ha radici né sviluppi, e non brilla di luce propria, per il modo in cui è raccontata.

Di Mary viviamo relativamente poco la condizione di dolore. Lei risulta adorabile, come personaggio, e ne vorremmo sapere e vivere di più, ma viene lasciata troppo ai margini, troppo subordinata rispetto a Paul e Angus. E non perché manchi tempo. Anzi. Il film dura oltre due ore, e oltre metà del tempo, a nostro parere, poteva essere investito molto meglio.

Adoriamo i film lenti, quando la lentezza è un elemento fondamentale della narrazione, come nel recente “Perfect Days”, di Wim Wenders, che abbiamo adorato. Ma nel caso di “The Holdovers” è solo usata a mò di vezzo, dal regista. Che si prende il suo tempo, ma in quel tempo, non dice nemmeno la metà di ciò che il film potrebbe e dovrebbe, viste le sue premesse straordinarie.

The “Holdovers – Lezioni di Vita” risulta di conseguenza un film amaro, e non solo per ciò che vediamo accadere, ma soprattutto per ciò che non vediamo ma desidereremmo scoprire.

I personaggi hanno un bagaglio strapieno di storie, ma ne condividono appena un semplice riassunto, spalmato su una durata di 133 minuti.

Detto questo, l’esperienza al cinema non è negativa, se il tono usato vi è sembrato deluso, è perché questo è l’effetto che ci ha fatto. Avevamo aspettative che sono state disattese, aspettative che non riteniamo fossero esagerate, viste le premesse.

Questo film potrebbe piacere particolarmente a chi, nel suo riportarci al 1970, trovi una piacevole coccola nostalgica. Ma per un ragazzino degli anni 90, l’effetto nostalgia è relativamente limitato, e non ci permette di assegnare più di un 6,5 alla pellicola.

Riconosciamo uno straordinario lavoro in termini di fotografia e produzione, ma sentiamo mancare, pesantemente, quella scintilla a livello di scrittura, che trasporti questo film dal regno dei buoni prodotti a quello dei capolavori, cui pensavamo appartenesse dopo aver visto il trailer. Di Paul abbiamo mancato di citare il potenziale comico – ovviamente non sfruttato – insito nel suo personaggio. In generale è un personaggio che parla molto bene, con un utilizzo sapiente della lingua, tanto nel discorso normale, quanto nel dissidio. In un paio di momenti riesce a strappare dei bei sorrisi nel rendere ricercati quelli che vogliono essere degli insulti. Ma capita troppe poche volte, nonostante le occasioni si presentino in gran numero.

Storie di persone, di relazioni umane, per scoprire come la violenza si nasconda nella normale quotidianità di tutti noi.

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