L’Indiana Jones di Harrison Ford è il tipo di personaggio che supera la propria natura di simbolo cinematografico per farsi vera e propria icona della cultura popolare. Puoi anche non aver mai visto un suo film, ma se ti dico “Indiana Jones” nella tua testa la sua immagine si fa immediatamente chiara e definita, e con essa tutto l’immaginario collegato.
George Lucas e Steven Spielberg ne hanno creato la leggenda a cavallo tra anni 70 e 80, dando vita ad un brand, ad un mito, che ha a sua volta ispirato generazioni di creativi, di ogni media, dai fumetti ai videogiochi. Celebri e recenti sono i casi del Nathan Drake di Uncharted e Lara Croft di Tomb Raider, personaggi diversi tra loro, ma che devono all’Indie di Ford gran parte della propria caratterizzazione.
Ma sapete a chi si sono ispirati per creare Indiana Jones i suoi creatori originali? Quale personaggio era ben scolpito nella testa di Lucas e Spielberg quando nel 1981 scrissero e girarono “I Predatori dell’Arca Perduta”?
Se non lo sapete, ve lo sveleremo entro la fine dell’articolo.
Oggi parliamo di “Indiana Jones ed il Quadrante del Destino” un film prodotto da George Lucas e Steven Spielberg e con la regia di James Mangold, già regista di buoni film come “Logan” e “Le Mans’66”.
Nei panni di Indie, ovviamente, Harrison Ford, affiancato questa volta da Phoebe Waller-Bridge nel ruolo di Helena e Mads Mikkelsen nella parte del nazista Jurgen Voller.
Quarantadue anni sono tanti. Per chiunque. Gli anni 80 ci hanno regalato decine di film splendidi, tutt’oggi considerabili dei cult, nonostante il tempo e il cambiamento nella sensibilità collettiva. Ma di quanti di questi cult potremmo desiderare di vedere un seguito girato con gli stessi attori, a distanza di quattro decenni?
Pochi, se non nessuno. Anche perché è un’operazione che espone a molti più rischi di quante non siano le possibilità di successo. E allora com’è che ci troviamo, a quarantadue anni di distanza dall’uscita de “I Predatori dell’Arca Perduta”, a recensire un nuovo Indiana Jones? È davvero possibile che Harrison Ford, a 80 anni suonati, possa ancora conferire fascino e credibilità al suo personaggio più celebre? Non era bastato “Il Regno del Teschio di Cristallo” a dare il colpo di grazia all’archeologo più famoso al mondo?
A quanto pare no. Ma possiamo dire che questo sia un male?
Dopo aver visto il film, no. Forse non è stato un male.
Ma andiamo con ordine.
Trama e personaggi
Siamo sul finire degli anni 60, gli USA dopo una lunga rincorsa ai successi spaziali dell’Unione Sovietica, vince la gara per la Luna quando il 21 luglio del 69 Armstrong e Aldrin misero per la prima volta piede sul suolo lunare. In questo contesto ritroviamo un Henry Walton Jones settantenne, stanco, solo, e tristemente in procinto di andare in pensione, lasciando il proprio ruolo di professore universitario.
Superato il prologo, cui non facciamo accenni particolari per non fare spoiler, in una delle prime scene del film lo vediamo rivolgersi ad una classe di universitari svogliati e distratti, a ripercorrere la strada già battuta della rappresentazione critica dei giovani, con un’unica particolarità che ce la fa apprezzare: non si tratta di Millennials o Gen Z, ovvero le generazioni storicamente maltrattate in una certa tipologia di film.
I ragazzetti che vediamo ignorare il professore e le sue lezioni, sono Boomer. Giovani boomer. Appartengono a quella stessa generazione che dello sfottò ai giovani farà cifra di una buona fetta del proprio umorismo.
Il film non indugia eccessivamente sulla vita del protagonista, ormai anziano. Si limita a darci diversi piccoli quadri della sua quotidianità, a dipingere un mondo cui sembra non appartenere più. Con la gioventù e la prestanza fisica, l’hanno abbandonato tutte le normalità del suo tempo, del suo universo. Non sono videogiochi, realtà virtuale o social media a sconvolgerlo, come in tanti film ambientati ai giorni nostri, ma, banalmente, l’idea che l’uomo sia arrivato sulla luna, ed il fatto che i giovani la trovino una cosa così eccitante. Molto più dell’archeologia e della cultura classica in generale.
Oltre al fatto che il governo per farlo si sia rivolto a scienziati tedeschi, ex nazisti.
La narrazione prende molto presto un’accelerata action, e non ci si poteva aspettare altrimenti.
Le situazioni, in linea con i capitoli passati – a partire dal primo – portano la sospensione dell’incredulità dello spettatore verso vette notevoli. Non siamo, chiaramente, ai livelli – beceri – di Fast X, ma la plot armor che protegge i nostri protagonisti si dimostra immediatamente molto, molto potente, conferendogli una sorta di aura di invincibilità. I “cattivi” della storia non riflettono più di due secondi nello sparare a bruciapelo al primo passante che li ostacoli, ma quando si tratta di mirare a Indie o Helena, ecco che la loro precisione si trasforma in quella degli Stormtrooper di Star Wars – altra creatura di George Lucas, peraltro.
Questo toglie certamente “drammaticità” alle scene d’azione, ma probabilmente è giusto così. Non perché al film non gioverebbe una dimensione più “adulta” del racconto della violenza, ma, forse, perché Indiana Jones, adulto, non lo è mai voluto essere. Anzi, in questo film ci provano anche a farcelo diventare, almeno un po’. L’immortale Indiana Jones è obbligato a fare i conti con la morte, con gli addii, con la mancanza e con le nostalgie, oltre che col proprio invecchiamento.
Il personaggio di Harrison Ford, che merita un 8,5 per l’interpretazione, prova a ritrovare sé stesso, a sfuggire al tempo, e in qualche modo ci riesce. L’umorismo, la mimica facciale, gli atteggiamenti ci sono tutti. Ford ama Jones, e Jones ne ricambia l’amore donandogli una seconda gioventù, in una pellicola dolcemente nostalgica che nella sua leggerezza cerca comunque di adattarsi ai tempi.
Mangold, seguendo abbastanza pedissequamente il solco di Spielberg, cerca di stupire e meravigliare il proprio pubblico ricorrendo a stilemi classici, situazioni già viste che vanno ad omaggiare il passato, arricchendole però con qualcosa di nuovo. Il personaggio di Helena, voto 8, per esempio, va a costituirsi non più come spalla sexy e divertente del protagonista, in funzione unicamente estetica e simbolica, come faceva Kate Capshaw ne “Il Tempio Maledetto”. Si fa vera e propria co-protagonista. Non assume un ruolo soverchiante e castrante come si usa ultimamente fare con certi personaggi femminili, al solo scopo di attrarre una certa fascia di pubblico. È umana e spesso deprecabile per certi suoi comportamenti, ma ha un percorso di crescita durante il film. Non si tratta dello sviluppo di un carattere complesso e sfaccettato, non siamo ai livelli della “Emily” di Frances O’Connor, ovviamente, ma non siamo nemmeno di fronte ad una figurina bidimensionale usata solo per addolcire la figura del protagonista.
Il suo personaggio può essere detestato come amato, ma per ragioni reali, comprensibili, sensate, motivate da una trama che si sforza di darle un minimo di background. Con questo non vogliamo dire che la scrittura sia a prova di bomba, perché chiaramente non è così. Ma vogliamo dire che la scrittura, comunque, esista. E con essa, un’idea di fondo di cosa il film voglia trasmettere, e perché.
Analisi tecnica
C’è del cuore nella produzione di questa pellicola, e questo si riflette in una buonissima fotografia, voto 7,5, e in una buona regia, voto 7, appesantita forse da un’eccessiva lunghezza del film. La visione non pesa particolarmente, anzi, ma ad una seconda fruizione si fa chiaro come diversi momenti non siano fondamentali, o comunque non aggiungano molto alla caratterizzazione di mondo e personaggi.
Parlando del cattivo di turno, Mads Mikkelsen non sbaglia il colpo, portandosi a casa un 7,5 pieno. Il suo gerarca nazista è malvagio, spietato, freddo, offre un buon senso di minaccia, ma riesce, involontariamente, anche a strappare qualche risata, qui e lì. I suoi sgherri, voto 6, sono buone macchiette, non godono di particolare caratterizzazione, te li prendi un po’ così come sono, dal tizio grosso e cattivo a quello più deciso e spietato, coprono il loro ruolo di punching ball senza farsi notare particolarmente.
Indie ed Helena girano il mondo, portando la storia da New York al mediterraneo, passando per Marocco, Grecia e Italia, e per ognuna di queste location – specialmente Tangeri in Marocco e Siracusa in Sicilia – è offerto un affascinante dipinto di come dovevano essere sul finire degli anni 60, con una buona attenzione a riprodurre costumi, scenari e situazioni dell’epoca.
Le scene di esplorazione riprendono tutti gli elementi che, se hai visto i film precedenti, ti aspetti. Serpenti, insetti, tunnel claustrofobici, trappole mortali ed enigmi per fuggirne. Questi forse non sono esattamente centratissimi quanto a progettazione, le loro risoluzioni sono relativamente banali e non riescono a meravigliare, ma tant’è, ci sono, fanno il loro dovere.
Il ritmo è abbastanza serrato, le scene action, tra inseguimenti, risse e sparatorie, sono ben fatte, ma per chi non le amasse potrebbero risultare eccessive, per numero e durata, fino al punto di stancare.
Quanto alla trama, siamo un gradino sopra rispetto al Regno del Teschio di Cristallo, e a nostro parere, anche rispetto al Tempio Maledetto. Indiana Jones è all’ultima corsa e si getta in un’avventura degna dei suoi anni migliori, offrendo qui e lì qualche flash della propria vita, dei propri dolori e delle proprie sconfitte, senza però che questo prenda il sopravvento sull’azione e sull’esplorazione.
Ci sarebbe piaciuto avere qualcosa di più della dimensione umana del professor Henry Jones Jr, vederne il Batman senza maschera di Nolan, o il Rocky che toglie i guantoni in Creed, ma il film non ci prova più di tanto, preferendo concentrarsi sul darci un Indie capace, a 70 anni – l’età del personaggio – di realizzare l’impossibile, proprio come a 30.
E a proposito dei 30, come visto nel trailer, il film ci offre diversi momenti di ritorno al passato, con un Ford ringiovanito in computer grafica in maniera abbastanza convincente, così da aumentare a dismisura il senso di dolce nostalgia di cui il film è completamente permeato.
Interessante e coraggiosa la scelta a proposito della parte finale del film. Non ne parliamo per non fare spoiler, ma da un certo punto del film in poi la narrazione viene rinfrescata da un bel colpo di scena, che riaccende l’attenzione e la curiosità del pubblico, che abbiamo sentito commentare divertito in sala.
Probabilmente si sarebbe potuta anticipare, e di molto, questa svolta, così da farne la parte centrale del film, offrendo una prospettiva tutta diversa, e nuova, alla narrazione. Il finale in questo senso, seppur dolce e “corretto” per come si è svolta la vicenda, interrompe fin troppo presto quella parte di film, non soddisfacendo la curiosità di vedere Indiana Jones cimentarsi in una situazione unica rispetto a quelle dei film precedenti.
Considerazioni conclusive
Per trarre le conclusioni, diciamo che “Il Quadrante del Destino” offre una buona, ultima, cavalcata al Dottor Jones. Harrison Ford fa uno straordinario lavoro nel conferirgli una buona credibilità, nonostante l’età. Indie corre, salta, spara, schiva, vola, e non lo percepisci mai come un ferro vecchio, ti dimentichi molto presto dei suoi 80 anni, ed il suo costume di scena gli calza ancora alla perfezione. James Mangold, pur non essendo Spielberg, ne segue la traccia, senza mai cercare di portare il film fuori dalla sua dimensione di blockbuster action a tinte nostalgiche. Al pubblico, e al botteghino, decidere se la scelta sia stata giusta o eccessivamente pigra e conservativa. Noi siamo indecisi: ci saremmo meritati un Indiana Jones più maturo e coraggioso? O, in fin dei conti, volevamo soltanto farci un bagno nel fiume dei ricordi?
Quel che sappiamo è che il film intrattiene, diverte, e dona 142 minuti leggeri e colorati.
Per tutti questi motivi si merita un buon 7,5. Che per chi amasse il canone originale della serie, può tranquillamente essere un 8. Per chi invece non fosse particolarmente affezionato al personaggio e alla sua mitologia, diventa un 6/6,5, peccando a quel punto di una lunghezza eccessiva e di una ridondanza di scene action piuttosto simili l’una all’altra.
Tornando alla domanda fatta ad inizio video, vi stupirà sapere che una delle principali ispirazioni per la creazione del personaggio di Indiana Jones sia stata… Paperon de’Paperoni!
Più nello specifico, le storie avventurose di Carl Barks, “Zio Paperone e le sette città di Cibola” e “Zio Paperone e l’oro di Pizarro”, cui vengono fatti riferimenti diretti ne “I Predatori dell’Arca Perduta”.
Sia George Lucas che Steven Spielberg erano molto appassionati dei cicli di storie di Carl Barks, e ne trassero forte ispirazione per la creazione di Indiana Jones. Personaggio che, peraltro, nelle intenzioni iniziali di Lucas, doveva chiamarsi “Indiana Smith” ed essere interpretato da Tom Selleck.
Il caso e il destino ci hanno invece regalato il professor Jones di Harrison Ford, cui questo film è un caloroso e sentito omaggio.
Detto questo, diteci la vostra sul film in un commento. Sapevate del legame tra Zio Paperone e Indiana Jones? Avete apprezzato questo ultimo capitolo? O rimanete fedeli alla trilogia originale, disconoscendo tutto ciò che è avvenuto dal 2008 ad oggi? Parliamone insieme.