Recensione film: Il regno del pianeta delle scimmie di Wes Ball

Ce l'avrà fatta Wes Ball a pareggiare la potenza della trilogia del "Pianeta delle scimmie" con questo nuovo "Il regno del pianeta delle scimmie"?

Vi diciamo la nostra in questa recensione.

Partiamo.

Premesse

Rise, Dawn e War, sono i tre capitoli della Saga “Il Pianeta delle Scimmie” che ci hanno fatto vivere la storia di Cesare, la scimmia che ha liberato le sue simili dalla dominazione umana, ha donato loro l’intelligenza, somministrando e diffondendo il virus ALZ-113, e le ha infine condotte alla terra promessa, sfidando prima le opposizioni interne e poi l’acrimonia della specie umana, fattasi improvvisamente fragile e debole rispetto all’alba dell’era delle scimmie intelligenti.

E la sua storia, il suo percorso, la sua vicenda, ci sono restate nel cuore. E sono restate nel cuore di tanti, nel mondo. Tanto che la scelta di farlo morire, al termine di War, ha dato proprio il senso di una chiusura definitiva.

Certo, non lo vedevi bruciare in una pira funeraria, quindi boh, il dubbio che Maurice potesse curarlo, svegliarlo, rimetterlo in pista e fargli fare qualche altra impresa biblica, ce l’avevi.

Ma sarebbe stato come resuscitare l’Iron Man di Robert Downey Junior, chessò, in Dottor Strange e il Multiverso della Follia.

Pessima idea. Pessima. Fortuna che non l’hanno fatto.

Per ora.

Il regno del pianeta delle scimmie: la trama

In sostanza, riportando Cesare in vita, avrebbero rischiato di rovinare il finale di War, e la citazione biblica di Mosè, senza avere la certezza di potergli dare nuovi film all’altezza della trilogia conclusa nel 2017.

E allora, per togliersi ogni dubbio, Il Regno del Pianeta delle Scimmie comincia con la pira funeraria di Cesare.

Timeskip.

E siamo 300 anni dopo.

Gli esseri umani sono un ricordo sbiadito. C’è ancora qualcuno di loro in giro, ma certe scimmie hanno persino smesso di chiamarli umani. La mutazione del virus, come abbiamo visto in War, li ha resi muti e non esageratamente svegli.

Almeno parrebbe.

Noa è il protagonista della nostra vicenda, ed è il figlio del capovilaggio, in un pacifico villaggio di fiume, nascosto tra le montagne.

I suoi abitanti hanno ereditato gli insegnamenti di Cesare, in tema etico e di convivenza pacifica, si sono specializzate nell’allevamento e nella simbiosi con le aquile.

I giovani del villaggio, sia maschi che femmine, ad una certa età affrontano il rito di passaggio che conferisce loro l’uovo di un’aquila, che tocca loro proteggere e riscaldare fino alla schiusa, per poi diventare custodi e compagni dell’aquila nascitura.

Per il resto vediamo una serena divisione del lavoro in una società che non trascura l’educazione dei più giovani, ma al contempo, un allontanamento da certe pratiche “umane”, come quella della lettura e della scrittura, cose che invece le scimmie di 300 anni prima sembravano molto propense a fare, con Maurice che teneva vere e proprie lezioni di scrittura per i più piccoli.

La scelta in questo caso non sembra molto sensata, ma più avanti verrà usata per mandare avanti la trama, risultando comunque un pochino forzata.

Anche perché le scimmie parlano, e parlano inglese corrente, quindi suona strano che non abbiano sentito il bisogno di tradurlo in codice scritto.

Visto che comunque i simboli li utilizzano.

Il tramandare la storia solo oralmente, comunque, ha portate le conseguenze che questo ha sempre portato nella storia dell’umanità: la divergenza tra la verità e la sua narrazione, con le gesta di Cesare che vengono raccontate ora in chiave pacifica, ora in chiave autoritaria.

E questo è uno dei temi più interessanti offerti da questo film.

Quella relativa a Cesare, sostanzialmente, è una religione. Di cui la scimmia che abbiamo visto crescere nella scorsa trilogia, è, a pieno titolo, profeta e messia.

Perché, ridendo e scherzando, per le scimmie Cesare è stato più importante di Gesù. Ha unito in una sola figura Adamo, Mosè e Gesù. Lasciando giusto a James Franco il ruolo di scintilla creatrice.

Ma se di Will Rodman, chiaramente, nessuna scimmia ricorda o sa nulla, al contrario, Cesare è oggetto di venerazione. Ovunque.

E la sua eredità è celebrata tanto a livello concettuale, tanto nella pratica quotidiana.

Solo che per alcune scimmie, vale l’eredità del Cesare che vietava alle scimmie di uccidersi l’un l’altra e le individuava come forti se unite.

Per altre invece, vale il Cesare capo militare, il cui istinto unificatore delle scimmie si declina nel tentativo di conquistare territori e annettere tribù con la forza delle armi.

Con la massima aspirazione di accedere ad arsenali umani nascosti e sigillati.

E se il primo Cesare è esistito, e lo abbiamo visto crescere. Il secondo, il guerrafondaio, no. È una deformazione postuma, fatta ad uso politico.

La deformazione ad uso politico che fonda la personalità del villain del film, Proximus, il cui nome latino non è casuale.

Perché il Cesare da lui venerato è il Giulio Cesare della storia romana, ancora più della scimmia.

Proximus infatti ha un “umano da compagnia” che, salvatosi dalla perdita della parola e dell’intelletto per mezzo del virus, allieta le serata dell’autoeletto Imperatore delle Scimmie con la lettura di testi sull’Impero Romano.

Del tipo che il trend di TikTok in cui si chiedeva agli uomini americani quanto spesso pensassero all’Impero Romano, evidentemente, funzionerebbe anche tra le scimmie del 2300.

Proximus attacca, sottomette e deporta gli abitanti del villaggio di Noa, il quale, in compagnia di un Orango e di una ragazzina umana incontrata per caso, dovrà intraprendere un viaggio per salvarli, liberarli e ridare vita al suo villaggio, con le sue tradizioni e il suo culto della pace.

In tutto questo, la ragazzina umana, Mae, rappresenta tutte le incognite dietro al rapporto con una specie diversa, apparentemente sconfitta, ma ancora desiderosa di riprendersi il suo posto nel mondo.

L’Orango, invece, Raka, è un, nemmeno troppo velato, tentativo di offrire una versione sbiadita e raffazzonata di Maurice, il saggio e fedele amico di Cesare.

Quello di Noa è un percorso di formazione, un coming of age, in cui è chiamato a seguire la strada tracciata da suo padre e, come un moderno Simba, sconfiggere l’usurpatore per rifondare la sua comunità ed ergersi a Re.

O capovillaggio, in questo caso.

Le nostre critiche a “Il regno del pianeta delle scimmie”

Beh, le basi ci sono, il tutto a senso.

Ma.

Ma.

Non brilla esattamente per originalità.

E non sarebbe nemmeno troppo questo il problema. Alla fine, più che la storia in sé, in un film tante volte conta come la racconti, come caratterizzi i personaggi, come ne articoli le relazioni.

Beh, sotto tutti questi punti di vista, il film è buono. Non eccezionale, ma buono.

Il suo problema principale è il confronto, diretto, con War for the Planet of the Apes.

E, in questo senso, lo scontro è una caporetto clamorosa.

Il Regno del Pianeta delle Scimmie non ha assolutamente la potenza drammatica del suo predecessore. I suoi personaggi, pur essendo nuovi di pacca, totalmente estranei a quelli della trilogia, ne sono una copia sbiadita. È chiaro il tentativo di ripercorrere certe strade con la speranza di arrivare a esiti simili al passato. Ma funziona solo parzialmente.

Noa non è male. Ma nemmeno così bene.

Proximus non è terribile. Ma Koba era altra cosa.

E la regia di Wes Ball è buona. Ma Reeves aveva portato la saga a tutt’altro livello. Con un Andy Serkis ad animare un Cesare che si sarebbe potuto tranquillamente candidare per un oscar come migliore attore protagonista.

E Mae?

Mae è un personaggio complesso da giudicare. Il film vorrebbe creare in lei una partner e al contempo un’avversaria per Noa, creando un rapporto ora di amicizia, ora di rivalità. E l’idea di fondo, ha un bel potenziale tragico.

Mae vuole bene, amichevolmente, a Noa. Ma al contempo, ha delle rivendicazioni nei confronti delle scimmie, che in qualche modo vede come usurpatrici del mondo umano.

E l’idea sarebbe comunque quella di creare un legame forte con Noa, così che lo spettatore sviluppi sentimenti contrastanti verso di lei e verso la vicenda in generale.

Ma funziona pochino.

Il legame tra lei e Noa non è così potente, così viscerale. Lei può fare A ed il contrario di A, e il pubblico non è portato a strapparsi i capelli.

In più, tante delle vicende e delle avventure in cui è coinvolta con Noa, risultano forzate, a livello di scrittura.

A differenza dei film precedenti, qui si vede la mano di chi scrive, si intuiscono, didascalicamente le sue intenzioni, e sono anche buone. La sceneggiatura e regia non sono in grado di portarle a compimento.

Le ambizioni del film sono alte e lodevoli. Ma rimangono intenzioni non pienamente realizzate. Lasciando un pochino di amaro in bocca.

La regia è buona, con momenti certamente molto spettacolari. Ma non affonda mai la lama in profondità, sono pochissimi i momenti memorabili. Il mondo è meno grezzo, sporco e violento rispetto a quello di Dawn e War, è tutto un pochino più virtuale, Avatar-esco potremmo dire.

In questo film non ci sono cose gravi, che non vadano, semplicemente fatica a graffiare.

Più che con Dawn e War, dovremmo confrontarlo con Rise, quello che in Italia conosciamo come “L’Alba del Pianeta delle Scimmie”, perché come quello, si propone di porre le basi per una nuova trilogia, un nuovo eroe ed una nuova grande impresa. E rispetto ad esso, è certamente un film più consapevole e moderno, arrivando a 13 anni di distanza, privo di tante ingenuità che derivavano dalla sua natura di blockbuster concepito sul finire degli anni 2000. Ma perde anche in questo caso il confronto sul punto focale: la capacità di emozionare e coinvolgere.

Non fraintendeteci. Il Regno del Pianeta delle Scimmie è un bel film. Ci è piaciuto e probabilmente lo rivedremo. Ed è 100 volte meglio di Avatar, se proprio dobbiamo fare il paragone.

Paga però il peso di aspettative troppo complesse da rispettare.

Perché inventarsi un nuovo Cesare, era quasi impossibile. E per fare qualcosa di diverso, ma ugualmente potente, forse ci si sarebbe dovuti affidare a mani più esperte di quelle del buon Wes Ball. Che è stato bravo, ma si è dovuto confrontare in una battaglia impari.

Buona la colonna sonora, funzionale, ma senza picchi esagerati, non siamo nella categoria di Dune o di Across the Spiderverse, per citare due casi recenti che ci sono piaciuti tanto.

Conclusioni

Per tutti questi motivi, a “Il Regno del Pianeta delle Scimmie” diamo un buon 7, simbolo di un buon film che però perde il confronto con tutti e tre i suoi predecessori, senza per questo minare la possibilità di fondare una nuova trilogia degna di questo nome.

Vediamolo come un Batman Begins.  Un film che si lascia guardare, ma che ci saremmo dimenticati tranquillamente se non avesse fatto da base per “The Dark Knight”.

Il Regno del Pianeta delle Scimmie non tradisce i film che lo hanno preceduto, quanto alla profondità delle tematiche che accompagnano l’azione, né li tradisce quanto a spettacolarità delle sequenze avventurose.

Delude, parzialmente, nella caratterizzazione dei nuovi personaggi, buoni e cattivi, e nella capacità di trasporre le intenzioni concettuali in una sceneggiatura forte.

Nonostante questo, dà comunque avvio a quello che è un nuovo Pianeta delle Scimmie, in cui il culto di Cesare ha dato vita a comunità deviate e pericolose, e in cui gli umani sembrano volersi riprendere il proprio spazio sotto al sole, con Mae, e Noa, che verranno messi di fronte a scelte difficili dalle conseguenze, potenzialmente, tragiche.

E laddove Rise, Dawn e War, sono state in grado di trattare con forza ed efficacia temi molto difficili, mischiandoli con l’avventura e l’intrattenimento, Kingdom e i suoi sequel avranno la responsabilità di fare altrettanto, se non ugualmente bene, andandoci almeno vicino.

Il seme è stato gettato, i primi risultati sono abbastanza buoni, ma molto migliorabili, ora non ci resta che aspettare.

Storie di persone, di relazioni umane, per scoprire come la violenza si nasconda nella normale quotidianità di tutti noi.

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