Una recensione riflessiva su “Priscilla”
Priscilla, interpretata da Cailee Spaney, ed Elvis, interpretato da Jacob Elordi – se possibile sempre più figo, al netto della stronzaggine dei personaggi che si trova ad interpretare – si incontrano per la prima volta in Germania nel 1960, durante il secondo anno di servizio militare prestato dalla celebrità, che in quel tempo era, appunto, già una star globale.
Lei, praticamente ancora bambina, una neo adolescente al primo anno di liceo, viene sedotta dal grande mito dei suoi tempi: un Elvis impaziente di terminare il servizio militare in Germania, per tornare in America e proseguire la sua carriera come attore e cantante. Un Elvis fresco di perdita della madre, morta nell’agosto dell’anno precedente, e bramoso di colmare quel vuoto con una nuova figura femminile: accudente, mite, completamente plasmabile secondo i suoi bisogni.
E chi meglio di una giovane 13enne dall’individualità e dalla personalità non ancora forgiate per farlo?
Qui abbiamo il primo punto focale del film, e il primo, giusto, attacco alla sacralità delle tradizioni. L’idea della moglie iper-giovane, persino bambina, come compagna da costruirsi su misura, da ogni punto di vista, è un concetto estremamente diffuso in tutto il mondo, e legato alla storia umana, con tracce letterarie persino nella cultura greca antica.
Lungo la storia, avere una compagna molto più giovane garantiva vantaggi innegabili, in termini di economia domestica. Il primo vantaggio, semplice, banale, era quello della procreazione. Una ragazzina ha molti più anni fertili davanti a sé, e molta più probabilità di condurre in porto numerose gravidanze. In epoche in cui la mortalità infantile aveva percentuali spaventose, questo rappresentava un vantaggio enorme. Sia per la continuità del nome, sia per la certezza di avere della forza lavoro, in famiglia, che ti garantisca la sopravvivenza anche in anzianità. Oltre a ciò, in secoli in cui le parole “diritti” e “femminili” potevano apparire nella stessa frase solo in contesti ironici, avere una bambina da formare e plasmare affinché acquisisse la capacità di amministrare la casa, conservare il cibo ed educare la prole, poteva essere la chiave della sopravvivenza attraverso periodi di carestia, crisi economiche, epidemie e guerre.
Fuori dal contesto novecentesco, tutti questi valori, più che morali, erano pratici. La disumanizzazione femminile, la considerazione della donna come strumento più che come ente autonomo, rimaneva bestiale, ma in qualche modo metteva le radici in una dimensione pratica.
Il ‘900, la rivoluzione industriale, le tecnologie e la formazione della civiltà occidentale per come la conosciamo oggi, tolgono completamente di senso, a livello pratico, a questo sistema già eticamente squilibrato.
Ma le tradizioni sono dure a morire. Perché, buone o cattive che siano, piantano radici profondissime nel campo della tirannia più efficace e stringente che esista. Quello dell’abitudine.
Che motivo pratico c’era, nel 1960, di avere una moglie giovanissima, relegata in casa come una prigioniera, e costretta ad interpretare il ruolo della Barbie Casalinga, bella, perfetta, priva di carattere, opinioni o idee di qualsiasi tipo, se non il desiderio di compiacere il proprio marito?
Nessuno. I frigoriferi svolgevano già a meraviglia il compito più vitale che il mondo ha sempre delegato alle donne fino al ‘900. Nel 1960 una donna non metteva minimamente a rischio la salus della domus, della familia, dei liberi, andando a scuola, all’università, al lavoro. Quello che però il mondo faticava, e fatica tutt’oggi, a creare, oltre ad un modello femminile libero e autodeterminato, è un maschile capace di relazionarsi ad esso in senso paritario. Da uguali. Senza atteggiamenti oggettivanti e strumentali.
Non stiamo parlando di uomini e donne, o uomini contro donne, ma di modelli sociali.
Da queste riflessioni, muove, più o meno, la narrazione, in Priscilla. Così, comincia la relazione tra i due: una lenta ma efficientissima costruzione di una gabbia dorata e scintillante in cui imprigionare Priscilla, che per “amore”, anche se non siamo sicuri che sia il termine adatto a definire questo genere di rapporti, finirà per trasferirsi a Memphis, nella lussureggiante dimora di lui, ancor prima di terminare gli studi ed ottenere il diploma, che effettivamente conseguirà in America.
“Mamma lasciami andare, lui ha bisogno di me, sono l’unica che riesce a dargli la calma di cui ha bisogno” – o una cosa del genere – sono queste le parole con cui Priscilla cerca di convincere i suoi genitori a lasciarla partire per l’America, per andare ad assistere il suo Elvis.
Da questa frase esce potente il quadro problematico dell’epoca, e, in qualche modo, di oggi. Nelle parole di Priscilla non c’è una donna, una bambina, che grida un concetto maschilista alla madre, proponendosi come strumento per il benessere di un uomo, peraltro ben più grande. C’è un modello di femminile come subordinato e dipendente per natura, che si incarna nelle parole di una bambina che non sarebbe mai in grado di renderti conto razionalmente del proprio discorso. Quelle parole le vengono dal petto, dall’abitudine, dall’imprinting culturale cui è stata soggetto sin dalla nascita. Il suo modello di femminile è quello. E lei ne è espressione tanto quanto sua madre ed Elvis stesso.
Che puoi vedere come mostro, come despota, come violento. Ed è un giudizio che potremmo dire vero, sì, ma a posteriori. In un’epoca in cui, finalmente, c’è tanta più gente che in passato, disposta a vedere la bestialità di tutto ciò. E non perché la luce della ragione sia scesa dall’alto sulla terra. Ma perché il mondo, nelle sue costituenti sociali e tecnologiche, è cambiato. E con esso sta cambiando la sua etica. Almeno in occidente.
E tu, spettatore, cominci ad infastidirti al limite dell’orticaria, a odiare il 900 e a provare il desiderio indescrivibile di non dover mai più sentire parole come quelle che Priscilla dice a sua madre, di non dover mai più assistere alla scelta di una donna di affermare se stessa sacrificando la sua vita per quella di un uomo, piegandosi a castrazioni, frustrazioni e umiliazioni di ogni tipo.
Perché lo sai già che andrà a finire così.
E la cultura del 900, purtroppo, vive ancora tra noi. Per fortuna però, oggi, la si denuncia, anche attraverso l’arte, come il cinema.
Priscilla vive i primi anni della sua relazione con Elvis in attesa che lui torni dai set, esattamente come un cane attende il suo padrone. Elvis ci viene descritto come il classico uomo patriarca: decide lui che vestiti deve mettere la sua fidanzata, decide lui il colore di capelli, decide lui quando avverrà la loro prima volta, decide lui quando Priscilla deve drogarsi per stare al suo passo, nelle lunghissime nottate a Las Vegas.
Scilla è il modello stereotipico di donna sottomessa e plasmabile a piacimento: una bambolina perfetta, che solo in rare occasioni si concede di controbattere al suo padrone, di fatto quando l’esasperazione la porta oltre, facendo emergere l’istinto umano di autoconservazione al di sopra di qualsiasi dettame socioculturale. Per esempio, quando apprende dai giornali le notizie di nuove tradimenti e amanti del suo compagno, che vede ritratto sulle copertine in compagnia di altre donne. O quando si vede costretta da lui ad ascoltare letture messianiche in uno dei, tanti, periodi ossessivo-compulsivi dell’artista.
Chiaramente, non manca la violenza, verbale e fisica, esercitata su di lei.
Ovviamente, non mancano le scuse e le lacrime da coccodrillo, tipiche del compagno violento, deviato da gravi spunti superegoici o megalomaniaci.
“Scusa Scilla, ho preso tutto il carattere di mia madre”.
Bleah.
L’effetto sullo spettatore c’è. Sei più che infastidito, nauseato dalle dinamiche tossiche di questo rapporto che devi sorbirti, di fatto, per un’ora e 44 minuti di film.
Scilla vorresti poterla prendere dalle spalle, scuoterla per rianimarla, e dirle “ti prego scappa da questa vita di merda!!!!”.
Ma se ci sono donne, anzi, persone, che rimangono incastrate in relazioni tossiche con persone assolutamente comuni, figuratevi cosa può voler dire anche solo immaginare di lasciare Elvis Presley.
Infatti, Priscilla non lo fa. Stringe i denti, abbassa la testa, schiva i colpi quando riesce, resiste a quelli che non può schivare, fino ad arrivare al matrimonio con la star, il primo maggio del 1967.
O fino ad arrivare a rimanere incinta, di una bimba: Lisa Mary Presley – morta nel 2023, tra l’altro.
E la narrazione del film, sulla descrizione di questa brutta e ripetitiva quotidianità, ad un certo punto si incarta, perde di brillantezza e comunicatività. Hai afferrato il punto, hai fatto le tue riflessioni, se volevi fare, e non ne puoi più. Non vedi l’ora che il film finisca. La sensazione è quella di dover ingerire lo stesso piatto freddo per un’ora e mezza, senza pause. Ti domandi se e quando arriverà il riscatto di Priscilla, che di fatto, ti viene mostrato nell’ultimo quarto d’ora della pellicola.
Priscilla a una certa lascia Elvis e se ne va di casa. Fine del film.
Risultato? Oltre ad essere un piatto freddo questo film risulta proprio un po’ piatto. Non che l’evoluzione del personaggio di Priscilla sia completamente assente, ma i dialoghi sono asciutti, la pellicola si concentra per tutta la durata a riproporti in diverse salse la stessa dinamica relazionale, con un Elvis piatto, privo di profondità e complessità psicologica, per giungere alla liberazione della protagonista un po’ così, un po’ timidamente, con una regia e una fotografia piuttosto banalotte, specie sul finale. E le conseguenze, benefiche vogliamo supporre, del riscatto della protagonista non le vedrai mai.
Che noia…
Buoni i costumi, nulla di che la colonna sonora. Non aspettatevi le canzoni di Elvis perché la famiglia Presley non ne ha concesso l’utilizzo nel film, dato che, come avrete capito, l’artista non viene raccontato nelle sue glorie, ma anzi, tutto il contrario.
Voto? 6 direi.
È questo “amore”?
Quello che sai, però, è che Priscilla Presley ha confessato in un’intervista di aver continuato ad amare Elvis, anche dopo la separazione, riproponendo ancora una volta il nocciolo del problema.
È amore, quella roba lì? Si può definire “amore” qualsiasi legame che unisca persone in vincoli apparentemente insensati, per la violenza e la sottomissione che li permeano? È amore quello tra un carceriere e la propria prigioniera, qualsiasi sia il loro genere e la loro estrazione sociale?
Oppure, semplicemente, più che di persone, Priscilla – il film intendiamo – trova la sua forza nella descrizione di modelli?
Perché se lo spettatore decide attivamente di fare ciò, al di là della volontà dell’autrice, Sofia Coppola, e della fonte, Priscilla Beaulieu, allora il quadro del film si fa interessante, nella sua lentezza.
In caso contrario, si tratta solo di un film che racconta una storia terribilmente comune, su un personaggio che appartiene ad un’altra epoca, e che dice pochino alle nuove generazioni, macchiandosi invece di lesa maestà per le generazioni più anziane, quelle per cui Elvis brillava di luce propria e che a molti anni dalla sua morte pensano ancora a lui come all’incarnazione di un qualche tipo di divinità.
Sofia Coppola non ha il suo miglior cinema in questo “Priscilla”, che rimane comunque un film in grado di fare riflettere, se lo spettatore decide di metterci del suo, come abbiamo provato a fare con questa recensione scritta a quattro mani.