Il primo giorno della mia vita è un film del 2023 di Paolo Genovese, regista di “Perfetti Sconosciuti” e “The Place”.
Il cast, per il panorama italiano, è notevole, con protagonisti Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Margherita Buy, Sara Serraiocco e Gabriele Cristini, affiancati da Vittoria Puccini, Giorgio Tirabassi e Antonio Gerardi, tra gli altri.
La trama
Quattro persone, che per motivi diversi si trovano in uno stato di profonda sofferenza, decidono di suicidarsi. Il personaggio senza nome di Toni Servillo, una sorta di angelo delle seconde opportunità, si presenta ad ognuno di essi un istante prima che compiano il gesto, creando un bivio nel loro futuro. Da un lato sono portati a vedere coi loro occhi le conseguenze del loro gesto, avendo la possibilità di camminare come fantasmi nel mondo in cui non ci sono più. Dall’altro, hanno la possibilità di aprire finestre su un futuro in cui decidono di non uccidersi, così da constatare come esista la speranza per un futuro felice. O comunque sensato. Mastandrea interpreta Napoleone, un motivatore professionista – avete presente quei santoni americani che vanno sul palco di fronte a centinaia di persone a lanciare slogan e a predicare ottimismo a caso? – che si suicida in preda ad una depressione di cui non sa rintracciare le cause. Margherita Buy è Arianna, una poliziotta che ha perso la propria figlia 16enne e che in qualche maniera ha paura che, col passare del tempo, dolore e mancanza si facciano più tenui, sfumate, in una nuova normalità in cui lei sia chiamata a tornare a vivere. Sara Serraiocco è una giovane campionessa di ginnastica finita in sedia a rotelle in seguito ad un incidente e Daniele Cristini è un bambino sovrappeso e malato di diabete infantile, obbligato dal padre a mangiare cibo spazzatura in diretta su un canale Youtube.
L’intento di Genovese
L’intento di Genovese è ambizioso: la tematica del suicidio è di base molto delicata; è terribilmente facile inciampare e cadere nel banale come nel patetico, mentre è difficilissimo darne una visione onesta, equilibrata e profonda. La visione che, per esempio, riesce perfettamente a – sto per fare uno spoiler a proposito di una serie italiana del 2021, disponibile su Netflix – Zerocalcare in “Strappare lungo i bordi”, sempre con Valerio Mastandrea.
È un successo?
Il film di Genovese, in questo senso, è un disastro totale. Le straordinarie capacità attoriali di Servillo e del resto del cast sono appiattite da linee di dialogo macchiettistiche, assurde, in-recitabili per quanto surreali.
I personaggi si affrontano a colpi di frasi a effetto, motti di spirito e sentenze inappellabili. Il loro passato e i loro sentimenti non vengono che abbozzati in scambi di battute superficiali, sconclusionati e che rendono impossibile agli attori un’espressività che li stacchi dalla recitazione di un corso di teatro delle scuole medie.I legami tra loro nascono in maniera casuale, e sempre casualmente si evolve – anzi, non si evolve – il rapporto tra loro. I personaggi scivolano piatti addosso allo spettatore, incapace di appassionarsi a tragedie umane che normalmente dovrebbero scuotere e obbligare a riflessioni profonde.
Non c’è approfondimento psicologico, né cura per le dinamiche dietro alla decisione di porre fine alla propria vita, è tutto banalizzato e ricondotto a singole cause scatenanti, relativamente facili da disinnescare. Lo spettatore non è minimamente accompagnato all’interno della mente dei personaggi, ci sono delle scene in cui il regista, chiamato a dare ai personaggi immagini di un futuro felice per cui continuare a vivere, taglia corto con finestre brevissime, sconclusionate e totalmente inefficaci.
È tutto banalizzato e semplificato all’estremo, ma nemmeno da questa semplificazione il film riesce a trarre un ritmo interessante, o un qualsiasi spunto d’interesse. Il personaggio di Servillo dovrebbe fare da Virgilio nel condurre i co-protagonisti nell’inferno di un mondo senza di loro, con l’obiettivo di spingerli a riscoprire spontaneamente la voglia di vivere, ma i suoi stratagemmi risultano sterili, puerili, dilettanteschi, senza che peraltro si capisca quale sia la natura della sua figura. Non c’è un momento del film in cui un personaggio ti spinga ad una riflessione, ti stimoli l’immedesimazione, sono stereotipi su gambe, tagliati col machete e incapaci di dare consistenza al proprio percorso.
La tematica del suicidio è trattata come una leggerezza spiazzante, con i personaggi che sembrano quasi indifferenti al proposito, intenti a contrattare con il loro sequestratore per ottenere qualcosa in cambio della rinuncia al gesto estremo. Non c’è un momento in cui si intraveda una maturazione intellettuale di nessuno di essi, non un momento in cui la spinta ad amare la vita si faccia reale, forte, tangibile, o meglio, condivisibile.
Questo è il problema principale del film: non riesce minimamente a coinvolgere chi guarda. I personaggi non sono “umani”, sono macchiette, caricature, maschere, le cui vicende non si incastrano, non funzionano.
La cosa grave è che a vestire queste maschere siano alcuni tra i migliori attori italiani – e forse il migliore in assoluto, Servillo – mortificati da una sceneggiatura terribile.
I colpi di scena poi sono terribilmente forzati e nonsense. Il mondo metafisico in cui Servillo porta Napoleone & soci vive di regole inventate sul momento, prive di coerenza, prive di senso. Gli spiriti un momento sono invisibili, quello dopo sono visibili, un momento non possono mangiare, quello dopo sì. Però fumare possono, quello sempre.
Nessuno mai si è tolto la vita. Il suicidio è una condanna a morte della cui esecuzione il giudice incarica il condannato.
Guido Morselli, Scrittore
Che conseguenze ha tutto questo sulla trama? Nessuna. O quasi.
A fare di questo film la fiera delle occasioni perdute concorre il fatto che a livello fotografico si sia nell’ambito dell’eccellenza. Ma paradossalmente anche questo finisce per aiutare a creare una sensazione di profondo fastidio; inquadrature splendide vengono associate a momenti del tutto trascurabili, o comunque così mal contestualizzati da non riuscire a colpire. C’è una scena, in particolare, girata sul tetto di un palazzo, sotto la pioggia battente, che giustificata diversamente sarebbe potuta diventare un classico del cinema italiano. Invece viene dimenticata immediatamente, insieme ad una miriade di scene che fotograficamente risulterebbero bellissime, se usate per trasmettere qualcosa. Roma viene dipinta di mille colori, con giochi di luci e riflessi che raramente vediamo in un film italiano contemporaneo. La luce calda dei lampioni satura l’atmosfera dandole i tratti del surreale in certe scene notturne, mentre la pioggia battente ci vorrebbe comunicare il senso del tragico, in altre. Ma entrambi i tentativi naufragano nella pochezza del racconto.
Male anche la colonna sonora: qua e là vengono lanciati, a caso, brani piuttosto iconici – ma inflazionati – che spesso mal si sposano con i momenti che accompagnano, dando una sensazione ancora più straniante, specie quando vengono sfumati verticalmente, senza l’adeguato fade-out, o un montaggio che giustifichi il taglio.
Impossibile non dispiacersi nel vedere questo film, ma non per le vicende dei protagonisti. È una terribile occasione sprecata. Genovese, autore certamente di talento, mette assieme un cast straordinario per raccontare una storia che nelle premesse sarebbe interessante e ambiziosa, ma fallisce nella cosa più importante: dare consistenza alla narrazione e ai suoi personaggi. E non ci troviamo di fronte ad un “Revenant” in cui la qualità della fotografia varrebbe il film già da sola. Qui, anzi, in tanti momenti stona, risulta sprecata, quasi kitsch.
Per tutte le ragioni fin qui elencate, il nostro voto al film è di 2 su 5. Tradisce ogni aspettativa e delude ogni speranza, nonostante un cast straordinario e valori produttivi eccellenti. Con “The Place”, Genovese aveva voluto sperimentare, ma anche in quell’occasione il risultato era inferiore alle aspettative, seppur non privo di spunti di interesse. Da questo film ci si aspettava una maturità maggiore, ma al contrario, risulta un passo indietro, invece che in avanti.