Dune Parte 2 – Recensione film di D. Villeneuve

Aspettavamo Dune Parte 2 con estrema impazienza. E lo diciamo da chi non ha letto i libri – o almeno non ancora.

Ma il primo capitolo della saga ci è bastato e avanzato per appassionarci ad un universo narrativo – e in questo caso il termine universo è quanto mai azzeccato – dalla lore appassionante perché ricca di dettagli e riferimenti che dalla pura fantasia ci portano nella storia umana vera e propria, facilitando l’immedesimazione in personaggi e culture che in qualche modo riconosciamo.

Sezione no spoiler

Dopo aver visto il primo film, al netto di obiettivi dichiaratamente diversi, ci è venuto da pensare che Dune fosse ciò che Star Wars sarebbe dovuto diventare, dopo la trilogia classica, e ancora di più dopo la trilogia prequel, per avere senso, per mantenere rilevanza artistica, oltre che commerciale.

Ma sappiamo tutti com’è andata.

Vero Disney?

A Denis Villeneuve è stata data carta bianca, un bel budget, grandissimi attori, e una missione: realizzare un blockbuster d’autore.

Un film che in qualche maniera fosse per tutti, ma che rispettasse la mitologia e la profondità di un’opera letteraria grandiosa e complessa.

E a Villeneuve non è parso vero, per la felicità.

E ha fatto delle dune di Arrakis lo scenario di una space opera meravigliosa, strapiena di simbologie, sottotesti, misteri. Con un unico grande “problema”, se di problema vogliamo parlare.

La sovrabbondanza di dettagli, caratterizzazioni e approfondimenti dei personaggi e delle civiltà create dalla fantasia dello scrittore Frank Herbert, rende oggettivamente difficile un adattamento cinematografico. Perchè ogni personaggio ha un background complesso, e ogni società una propria storia. E sacrificare questi elementi, per ragioni di tempo, rischiava di trasformare una storia complessa e stratificata in una zuffa spaziale. Bella da vedere, ma facile da dimenticare.

Con Dune – Parte 1, il rischio è stato evitato, scegliendo di trasporre una parte dei libri relativamente limitata. Non in senso assoluto, ma relativamente al volume delle vicende narrate nei libri.

Prima metà di Dune Parte 2

Con Dune – Parte 2, invece Villeneuve si è trovato a doversi confrontare con una parte di storia molto, molto più corposa, dovendola concentrare in 2 ore e 46 minuti, che potreste pensare essere molto tempo, ma che in realtà è persino poco.

Perché saremmo restati in sala un’altra oretta, più che volentieri.

Chalamet, Zendaya e gli altri attori protagonisti, come anticipato nel trailer, ci fanno calare nella civiltà Fremen attraverso la descrizione visiva di tanti loro riti, tanti loro costumi, col personaggio di Paul Atreides che si cala in modi di vita nuovi, conoscendo e accettando usi estremamente diversi dai suoi.

Villeneuve fa un ampio uso di campi larghi per mostrarci la magnificenza degli scenari in cui ambienta il pianeta Arrakis e la civiltà dei Fremen. La prima metà del film è lenta, perché chiamata a descrivere uno spazio temporale anche abbastanza ampio, in cui Paul entra lentamente nelle maglie di una civiltà estremamente stratificata e sospettosa, abituata a vivere in un clima di guerra, e per questo estremamente riluttante all’idea di mischiarsi con lo straniero.

Ma in questa lentezza, il montaggio è chiamato ad essere, in un certo senso, frenetico. Non nel ritmo, ma nelle scelte narrative. Il racconto fa continui salti in avanti, con timeskip piccoli e medi, che mettono insieme momenti di storia anche abbastanza distanti nel tempo. Un attimo vedi Paul iniziare una determinata attività, la scena dopo lo trovi coinvolto in qualcosa di completamente diverso, temporalmente distante anche settimane, se non mesi, rispetto a ciò che lo avevi visto cominciare pochi istanti prima.

Questo permette alla vicenda di coprire uno spazio temporale ampio, ma ti fa perdere un pochino l’evolversi di personaggi e sentimenti. Che Paul e Chani avranno una romance te lo anticipano dal primo film, ed è reso chiarissimo nel trailer; quindi, non ti stupisci minimamente quando lo vedi succedere. Solo che, a mancarti, è il “come”. Gli elementi di base te li danno, ci sono tutti. Ma è l’evoluzione ad essere frammentaria.

Possiamo definirlo un difetto? Sì e no. Sì, perché in termini narrativi lo è. No, perché in un film di 165 minuti difficilmente puoi fare di meglio.

Ci sono registi in grado di tratteggiare amori in maniera straordinaria ed in pochissime scene, Villeneuve in questo caso ci prova, riuscendoci solo in parte, nonostante abbia a disposizione due attori fenomenali.

Lo stesso senso di compromesso lo si prova per diversi altri aspetti della narrazione, specie per quanto riguarda i Villain, la famiglia Arkonnen, qui tratteggiata eccessivamente come “cattiva e svitata”, senza addentrarsi troppo in una loro caratterizzazione profonda.

Ma nonostante questo, funzionano. Nel quadro di una space opera e di un blockbuster, seppure d’autore, funzionano.

Perché nonostante non vengano approfonditi, incuriosiscono. Il film ha la straordinaria caratteristica di metterti voglia di approfondire quello che il regista non ha tempo di descriverti. Pur non sapendo molto di loro, della loro cultura, della loro storia, sei portato ad intuire, immaginare, supporre.

E perché questo?

Perché il cinema, prima di qualsiasi altra cosa, è fotografia.

Villeneuve dipinge, con la propria regia e con la fotografia di Greig Fraser, quadri meravigliosi, incorniciati dalle musiche di quel genio totale che è Hans Zimmer.

E a proposito di Zimmer, paradossalmente, avessimo fatto noi regia e montaggio, avremmo sfruttato ancora di più le sue musiche, togliendo il parlato da determinate scene per lasciare campo spianato alla musica, forse anche più potente dei dialoghi nel trasmetterci la tragicità di determinati momenti.

Conclusioni sulla sezione no spoiler

Ad una prima metà di film, come detto, al contempo lenta e frenetica, segue un finale estremamente, estremamente, estremamente, estremamente potente, intenso ed emozionante.

E abbiamo abbondato con gli “estremamente” perché per qualcuno risulta anche troppo “veloce” per il numero straordinario di eventi che vengono compressi in uno spazio di tempo relativamente breve. A noi la cosa non ha disturbato, ma probabilmente non aver letto i libri ci evita la sensazione di mancanza rispetto a questo o quel dettaglio.

Fatto sta che il film, emotivamente, è un treno dritto in faccia.

La sua natura di blockbuster è esaltata da momenti, battute e situazioni al cardiopalma, che portano l’adrenalina a livelli epici, mentre la sua autorialità è continuamente testimoniata da una regia raffinata e coerente, continuamente impegnata a farti rimanere a bocca aperta per la bellezza della messa in scena.

La mano di Villeneuve è precisa ma non invadente, la sua regia è speciale perché “invisibile”, L’autore non piega la narrazione ai propri gusti, al contrario, mette il proprio gusto al servizio della storia.

Per tutti questi motivi, il nostro consiglio, per tutti, è di andare a vedere questo film. E non una, ma tante volte. Meglio se in sale Imax – qualora abitiate a Milano, Roma o città che ne abbiano una – o comunque in impianti cinematografici quanto più belli possibile, perché la manifattura di questo film si esalta massimamente quando potete godere del massimo dettaglio audio e video. Come detto nell’introduzione, nella sala Imax del cinema di Orio al Serio, in determinate scene, la poltrona vibrava fortissimo per la potenza dei bassi.

Per il voto vero e proprio, vi rimandiamo al termine della sezione spoiler, al netto del fatto che nella nostra preview dei film di febbraio – che trovate qui sul nostro canale – gli avevamo assegnato un punteggio hype di 9 su 10.

Sezione spoiler

Lo abbiamo detto nella sezione no-spoiler e lo ripetiamo qui. Questo film i suoi difetti li ha, è chiaro.

La prima parte, come abbiamo detto, quella in cui Paul Atreides e sua madre si calano nella realtà dei Fremen, soffre del duplice “problema” di essere lenta e frenetica al contempo.  Le scene si susseguono spesso senza un legame forte l’una con l’altra, incollate solo in senso cronologico e da una blanda causalità. Ti perdi il fluire della storia e ti limiti ad apprendere nozioni sparse sui Fremen, su Paul e sul suo piano di vendetta. Ci sono gli elementi del racconto ma manca un pochino la “storia”.

Quando Paul viene mandato nel deserto per vedere se sia capace di sopravvivere, ti aspetti di vivere con lui la traversata, in un momento in qualche modo “intimo” e di maturazione del suo personaggio. Stilgar, interpretato da Javier Bardem, sembra preannunciarti che lo vedrai avere a che fare con bestie e demoni di ogni sorta.

Timeskip di qualche ora, cala la notte, appare Chani, che gli insegna due cose utili a sopravvivere, e la scena dopo siamo, giorni o settimane, se non mesi, dopo, nel mezzo di un assalto agli Arkonnen, nel deserto, con Paul e Chani che nel frattempo sono diventati un duo d’assalto devastante.

E la guerra nel nord di Arrakis volge clamorosamente a favore dei Fremen, che giorno dopo giorno si votano sempre più profondamente al culto di Paul, indicato dai più come il messia.

In questo senso è molto bello il processo di trasformazione dell’umile Paul, in cerca di una vita pacifica lontano dagli intrighi politici, nel Lisan Al-Gaib dei Fremen e nel Kwisatz Haderach delle Bene Gesserit, guidato da una madre divisa tra l’amore genitoriale ed il dovere rispetto al proprio culto.

Processo bello, ma anche in questo caso, frammentario e discontinuo. Alla fine, tutto torna, tutto ha senso, ma manca qualche connettivo logico ed emotivo che aiuti la storia a fluire meglio, rendendo più scorrevole un inizio di film che per qualcuno potrebbe risultare pesantuccio. Specie se paragonato al finale. C’è un momento, particolarmente bello, in cui il film dalla seconda marcia ingrana direttamente la quinta, per poi passare a settima e ottava saltando la sesta.

Ci riferiamo al punto in cui Paul muore e risorge. Sua madre, dopo essere diventata Reverenda Madre dei Fremen, ed essere sopravvissuta all’acqua della vita, che in cambio le ha conferito una conoscenza pressoché illimitata del passato, lo spinge a sottoporsi allo stesso rituale.

Molto bello il fatto che nonostante Lady Jessica sopravviva all’acqua della vita – un veleno che o ti rende onnisciente, o ti uccide – Paul piuttosto che vederci un segno della propria predestinazione, associ la cosa alla capacità delle Bene Gesserit di trasmutare i veleni. In quel punto lui è estremamente allineato a Chani nel ritenere la religione e le teorie messianiche, solo degli strumenti di manipolazione e controllo del popolo.

Questa tematica porta la storia da una dimensione fantascientifica ad una più strettamente politica e sociale, dando alla narrazione un notevole valore aggiunto, in termini di qualità e immersione.

Paul muore, come detto, ma sua madre stranamente non sembra preoccupata, come se in realtà avesse il controllo della situazione. E sembra ancora più così quando dice a Chani che solo lei può riportarlo in vita, mischiando una sua lacrima all’acqua della vita.

In questo modo Jessica sembra voler dare un colpo di grazia allo scetticismo della ragazza, per portarla definitivamente dal proprio lato, a fianco di quello che dopo la resurrezione e l’acquisizione di un’onniscienza storicamente riservata alle donne, non potrà che essere ufficialmente riconosciuto da tutti i Fremen come il Lisan Al-Gaib, il messia guerriero, un misto di Gesù e Maometto, un po’ profeta e un po’ comandante.

Ma non funziona. Chani è ben ancorata al suolo, e dove Jessica vede l’affermazione del messia, lei vede un Paul che perde contatto con la realtà, mettendo a rischio la propria vita per seguire superstizioni e manipolazioni.

E qui la frattura tra Chani e Paul sarebbe dolorosa se il film fosse riuscito a creare una sinergia più emotivamente profonda tra loro. Ma, come detto prima, la loro unione è un pochino troppo formale nella narrazione, non viviamo la passione che vediamo esserci tra loro; quindi, la frattura nel loro rapporto non riesce a diventare nodo gordiano della storia, ma rimane semplice elemento di un puzzle.

Un bel puzzle, comunque.

Dalla resurrezione, di cui sospettiamo Jessica sia regista oscura, parallelamente all’allontanamento da Chani, vediamo in Paul, anzi, Usul Muad’Dib come viene rinominato tra i Fremen, crescere il carisma del capo. E la sua figura diventa trascinante e rivoluzionaria, con una seconda scena estremamente significativa: quando si presenta al concilio dei capi tribù Fremen, nel sud di Arrakis, terra sconvolta da mortali tempeste di sabbia e per questo considerata inabitabile dagli Arkonnen.

Ma che ospita milioni di Fremen, molti dei quali estremamente integralisti nel culto del Lisan Al-Gaib.

Qui Paul Usul Muad-Dib Atreides fa quel colpo di mano carismatico e messianico che lo porta tanto vicino all’essere ucciso quanto all’essere riconosciuto come capo supremo. Sfida ogni ritualità e costume Fremen salendo sul pulpito senza essere capo di nessuna tribù, rifiutandosi di uccidere Stilgard che gli si offre come vittima per dargli il potere di parlare al suo posto.

E qui, dopo aver dimostrato nei fatti la propria onniscienza ai presenti, fa esplodere tutto il proprio carisma, con un monologo che mette i brividi tanto ai presenti al concilio, quanto a quelli in sala, dando inizio in qualche modo al proprio regno.

E come Maometto, si mette alla testa di un immenso esercito per dare inizio alla Guerra Santa. Che nei libri è chiamata esplicitamente jihad. Ma dal 1957, anno di pubblicazione del libro, ad oggi, quel termine è diventato così controverso, a livello di opinione pubblica, che Villeneuve ha deciso saggiamente rifugiarsi in qualcosa di più “safe”.

Da lì in poi il timido ragazzo che non voleva succedere al padre al timone di Casa Atreides, si trasforma nel condottiero messianico disposto ad affrontare l’universo intero, imperatore compreso.

Ed è all’imperatore, reo di aver complottato con gli Arkonnen per eliminare Casa Atreides, che Paul lancia la sua sfida. Con una lettera ufficiale. Da qui il film accelera, e accelera, e accelera. E se avete notato, oltre ad aver necessariamente dovuto saltare diversi fatti collaterali al procedere della storia, come la ricomparsa di Gurney Hallack, dato per morto dopo il primo film, abbiamo speso pochissime parole per gli Arkonnen, utilizzandoli giusto come riferimento per i “cattivi” della storia.

Chi ha letto il libro, in quello che stiamo per dire, troverà forse il principale problema del film.

Gli Harkonnen sono macchiette. Sono i cattivi, i cannibali, i deformi, quelli che complottano e uccidono senza remore. Dal loro pianeta di origine, reso in maniera spettacolare con l’uso del bianco e nero, dovuto al loro sole nero, vediamo la celebrazione gladiatoria del compleanno del nipote del Barone Vladimir. Feyd-Rautha Harkonnen, interpretato da Austin Butler.

Il suo personaggio nei libri si carica di significati uguali e opposti a quelli di Paul Atreides, fornendo alla storia una controparte perfetta, un rivale di uguale carisma ma opposti valori.

Cosa che Villeneuve traspone solo in minima parte. Il personaggio di Butler viene caratterizzato, sì, ma molto superficialmente, per offrire un personaggio che attiri l’odio del pubblico e la cui morte gli dia sollievo. Ma la missione è compiuta solo parzialmente, e non grazie alla scrittura, ma grazie a fotografia, colonna sonora e regia delle scene di combattimento. Perché è li che il film intende portarci. Bellissimo lo scontro campale, esaltante vedere i Fremen arrivare ad Arrakee in massa a cavallo dei temibili vermoni del deserto. Ma, come ci annuncia il poster del film, saranno Paul e Feyd-Rautha a fornirci il main event, il culmine del pathos.

E funziona.

Sticazzi che gli manca la caratterizzazione profonda dei libri. Lo scontro è figo. E poco importa se a questo punto il lato blockbuster del film prende leggermente il sopravvento su quello autoriale. È un momento dannatamente emozionante e soddisfacente. Da brividi. Hans Zimmer si scatena, Greig Fraser con lui, e le poltrone iniziano a vibrare incontrollatamente mentre i bassi dell’impianto audio spingono che nemmeno ad un rave party.

Conclusioni e voto

Il finale è una goduria indicibile.

La lentezza e “didascalità” della prima metà di film vengono dimenticate per dare vita ad un cambio di ritmo che ti fa dire “domani torno a me lo riguardo”.

E ti innamori dei personaggi, uno per uno, e soffri con Chani quando Paul dice che la amerà finchè avrà fiato, pur promettendosi in sposo, pochi minuti dopo, alla figlia dell’imperatore – interpretata da Florence Pugh, altro personaggio qui molto marginale, ma che in Dune Parte 3 diventerà fondamentale.

E muori internamente quando capisci che il film finirà con un cliffhanger. Le grandi casate, convocate dall’imperatore, arrivano nell’orbita di Arrakis, pronte a scendere in guerra contro la risorta Casa Atreides, non riconoscendone l’aspirazione al trono imperiale, in una rivisitazione spaziale delle dinamiche del Sacro Romano Impero.

In tutto questo abbiamo tralasciato la morte del Barone Vladimir Harkonnen, accoltellato alla giugulare da Paul che – Ah, questo ce lo siamo proprio dimenticato fino ad ora: dopo aver bevuto l’acqua della vita, prima Jessica e poi Paul scoprono di essere l’una la figlia e l’altro il nipote del Barone. Quindi Harkonnen a loro volta, oltre che Atreides, con tutto ciò che questo comporta in termini di diritti ereditari.
Lei in teoria dovrebbe essere nata da un rapporto abusivo del Barone, ma Villeneuve non approfondisce minimamente la faccenda, che potrebbe essere ripresa nel terzo film, quando la guerra lascerà Arrakis, ora rinominato dai Fremen “Dune”, per spostarsi su un piano interplanetario – nell’ucciderlo lo chiama “nonno”.

Beh, nonostante la caoticità del nostro racconto, avrete capito che Dune – Parte 2 si carica dell’ambizioso compito di trasporre una storia abnorme, con personaggi complessi e sfaccettati, e deve necessariamente fallire in alcuni aspetti per poter eccellere in altri, ed è proprio questo che fa.

La fluidità della storia, voto 7, viene sacrificata alla spettacolarità di una fotografia, voto 10, e di una colonna sonora, voto 9, che danno il vero valore, la vera spettacolarità ad una regia, voto 8,5 che conferma le aspettative di chi aveva amato il primo film, senza eccederle nè deluderle.

E per tutti questi motivi, il nostro voto al film conferma precisamente il punteggio Hype che gli avevamo assegnato in sede di preview. Ed è un 9 su 10.

I limiti nella sceneggiatura sono rimediati da un lavoro fotograficamente superbo. Gli attori sono quanto di meglio offerto dal panorama attuale, e non sapremmo immaginarci due migliori di Chalamet e Zendaya per i ruoli di Paul e Chani.

Di Zendaya peraltro forse abbiamo parlato troppo poco in questa recensione, e ci dispiace, perchè il suo personaggio è fondamentale tanto nell’evoluzione dei Lisan Al-Ghaib, quanto nel farci riflettere a livello politico, religioso e sociale.

E la scena finale in cui lei se ne va, al galoppo di un vermone del deserto, con quell espressioni di dolore in volto, spacca letteralmente il cuore. Tanto quanto l’espressione che fa quando Paul annuncia di voler prendere in moglie la figlia dell’Imperatore, obbligando quest’ultimo ad accettare per salvarsi la vita. A quel punto tutti i presenti, imperatore compreso, si inchinano a Paul. Ma non Chani. E non c’è nè Stilgard nè Jessica e trascinarla con le ginocchia a terra. Lei se ne va. Perchè in Paul non vede nè il Lisan Al-Ghaib né il Kwisatz Haderach. Ma il Fedaykin, il guerriero Fremen che lei ha amato, e che si è allontanato mortalmente da sé stesso per inseguire superstizioni, megalomanie e allucinazioni da avvelenamento da spezia.

Dune 2 è un’esperienza intensa, meravigliosa, al netto dei propri difetti, alcuni dei quali, francamente, inevitabili.

E nel mondo che vorremmo, supererebbe il miliardo di incassi, perchè se lo merita molto, molto, molto, molto più di uno Star Wars qualsiasi. Perché una narrazione frammentaria non basta a cancellare la volontà di mettere all’interno di una Space Opera Pop, tutta una serie di cenni storici, discorsi etici e questioni politiche e morali che dalla fantasia ci portano al mondo reale, alle sue tragedie e alle sue rivoluzioni.

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