Beau ha paura: recensione film di Ari Aster

“Beau ha paura” è un viaggio. Un viaggio terrificante, potente, faticoso, doloroso, angosciante, surreale, uno di quei film che ti fa uscire dalla sala letteralmente stanco, mentalmente e fisicamente provato.

Parliamo di un film del 2023, di Ari Aster, con protagonista Joaquin Phoenix, e, francamente, non sappiamo da dove cominciare.

Il film è la definizione stessa di “pellicola d’autore” perché ignora qualsiasi trend, qualsiasi regola della captatio benevolentiae e ti sbatte in faccia una storia cruda, violenta, spaventosa, raccontata con una regia ed una fotografia semplicemente maestose, messe al servizio della narrazione senza mai risultare leziose e “gratuite”.

L’impatto col personaggio è verticale, il regista non ti accompagna nella sua vita, ti ci sbatte dentro con violenza. L’atmosfera è quella dell’incubo, con il povero Beau immerso in una realtà surreale e violenta, ma al contempo indifferente e fredda.

Guardare questo film significa ritrovarsi a rivivere le meccaniche dei nostri incubi peggiori: il male, il dolore e la violenza si fanno ricorsivi, ti rincorrono, ti opprimono, ti colpiscono fino ad abbatterti, e tu non puoi che correre fino a perdere i sensi, sentendo le loro dita graffiarti la schiena, il loro fiato premere sul collo, le loro grida esploderti nelle orecchie.

Beau è un personaggio buono, affabile, anche piuttosto ingenuo, Joaquin Phoenix è mostruoso nell’incarnarne la fisicità trasandata, la postura sgangherata e i modi incerti e insicuri.

Innocuo e pacifico, lo vediamo dai primi istanti del film venire preso a pugni dalla realtà intorno a lui, quella di un quartiere povero della periferia di una metropoli americana, animato da personaggi spaventosi, angoscianti, che incarnano stereotipi viventi che, però, il regista non tenta minimamente di presentare o descrivere. Li vediamo per istanti, negli sguardi fugaci di Beau, fuori dalla finestra del suo appartamento, simili a personaggi di videogiochi programmati per ripetere all’infinito gli stessi pattern, le stesse meccaniche. Non sono altro che simboli, in una critica sociale per immagini, più che per parole.

Da quell’appartamento inizia il viaggio di Beau, un viaggio a strappi, mai lineare né per ritmi né per direzioni, fatto di momenti sensati e altri privi di qualsiasi consequenzialità logica o cronologica. Ari Aster riesce nella mastodontica opera di creare un racconto che alterni presente, passato e futuro del protagonista, senza che questo incasini la trama di fondo, il senso del film, che esce chiaro e potente a prescindere che tu lo interpreti come un viaggio reale o metaforico.

Il senso del film

E quindi qual è questo senso chiaro e potente? Sono tanti i sensi, in realtà, ma differentemente da quello che farebbe un documentario, ti vengono trasmessi per mezzo dei sentimenti, della paura, persino dello schifo che provi per determinate situazioni, determinati personaggi.

Il film dura tre ore, ma dopo cinque minuti senti già un cappio stringertisi intorno al collo a soffocarti, e provi al contempo la volontà di continuare a guardare e di andartene, travolto e coinvolto da vicende di cui fatichi a comprendere la realtà, ma di cui percepisci perfettamente il senso.

Questo perché il film per fare paura, per sconvolgere e trascinare, utilizza maschere umane spaventose perché terribilmente verosimili anche quando volutamente assurde. I personaggi della storia ti si incollano addosso dopo pochi secondi, ne riconosci gli atteggiamenti, i modi di fare, il carattere, come se li conoscessi, e il male che da loro scaturisce, anche quando rappresentato in maniera parossistica e caricaturale, è un male reale, ora sottile, ora abnorme.

Di tappa in tappa, Beau continua il suo viaggio, ma mai sulle proprie gambe, seguendo la propria direzione coi propri mezzi. È sempre in qualche maniera trascinato, spinto, obbligato o intralciato da volontà più forti della sua, da cui può al massimo provare a scappare, certo comunque di venire preso, prima o poi.

E Beau ha paura. Ha paura tutto il tempo. Non poteva esserci titolo migliore.

Beau ha paura del giudizio degli altri. Ha paura di sé stesso. Ha paura del suo passato. Ha paura del futuro. Ha paura persino della felicità, perché gli è stato insegnato che non se la merita, che non è a sua disposizione, e che qualsiasi cosa lui tocchi, in qualche modo marcisce e muore.

E Beau è così convinto di ciò, che ne fa la propria profezia autoavverante.

Il personaggio interpretato da Joaquin Phoenix è disarmato di fronte al mondo, un mondo oppressore e violento, fatto di estremi che si esplodono contro, combattono fino ad uccidersi, ferendolo e travolgendolo senza che lui possa averne scampo, che lo voglia o meno.

Beau muore e rinasce in continuazione, per mezzo dell’utilizzo di svenimenti tattici che ci permettono ogni tot di chiudere un segmento di storia e passare a quello successivo con un breve time skip, dopo il quale il personaggio è sempre più ferito, distrutto, ma mai abbastanza da farlo rinunciare al proprio viaggio.

L’oppressione ineluttabile è il fil rouge di tutta la storia, le vicende si attaccano tutte a questo filo rosso, ed il finale è quanto di più potente il regista potesse sperimentare, tanto che, conscio che avrebbe lasciato gli spettatori a bocca aperta a fissare il muro per diversi minuti, architetta i titoli di coda per favorire la pratica.

Regia e fotografia

La regia, come detto, è spaventosa per come una tecnica ed un’attenzione maniacali, portino ad una narrazione visivamente superba ma mai eccessiva. Non c’è momento in cui la fotografia fallisca nel raccontarti esattamente le emozioni dei personaggi, non si lesinano campi strettissimi iper-empatici e campi più larghi a descrivere il contesto dell’azione, in un’alternanza letteralmente perfetta, come se ne vedono raramente. Il regista riesce nell’impresa di dare sfogo a tutta la propria arte e il proprio perfezionismo senza che questo appesantisca il racconto, caricandolo dell’ego narcisistico dell’artista che espone sé stesso davanti alla propria opera. Al contrario, la mano di Ari Aster e Paweł Pogorzelski è forte ma invisibile, precisa ma delicata, perfettamente al servizio del racconto.

Un racconto che dice un milione di cose, alcune gridate, altre sussurrate, altre soltanto suggerite, e che ci pone infinite domande per le quali spesso non si sforza troppo di offrire risposte, poiché obbligarci a porci la domanda ha già senso di per sè. Il grottesco ed il surreale la fanno da padroni, tanto da spingerti in tanti momenti, specie nell’atto finale, a chiederti ad alta voce “cosa cazzo sto guardando?!”, sentendo l’eco della stessa domanda anche dalla persona seduta accanto.

Impossibile fare riferimenti ad elementi ulteriori di trama senza fare spoiler, perché ogni momento, in questo film, è un fondamentale pezzo di un puzzle creato ad arte per aprirci il cervello ed il cuore, prenderceli a pugni, e poi richiudere. È un film dai significati forti e dal linguaggio crudo, e lo si può guardare a tantissimi livelli, da quello più attento e riflessivo a quello più superficiale e attento al semplice svolgersi dei fatti, certi però che solo una delle due strade permetta di vivere a pieno l’esperienza.

E usiamo la parola “vivere” invece che “godere” perché il godimento è l’ultima delle emozioni che si prova in sala, data la violenza emotiva e psicologica del racconto.

Conclusione e voto

In conclusione, è un film da vedere assolutamente, che vi farà uscire dalla sala spaventati, arrabbiati, infastiditi, inorriditi o angosciati, ma sicuramente non indifferenti. Un film coraggioso, potente, magistralmente diretto e incredibilmente interpretato. Quanto a Phoenix, possiamo dire tranquillamente che il suo Beau è un personaggio in grado di far impallidire persino il suo Joker quanto ad intensità e difficoltà dell’interpretazione, e lui fa un lavoro incredibile nel diventare Beau, nel vivere Beau, nel farlo morire, rinascere, trasfigurare, cambiare, cadere…

Per tutte queste ragioni, il nostro voto è un 5 su 5. È un film che non piacerà a tutti. Per qualcuno sarà troppo lungo. Per altri troppo assurdo. Per altri troppo violento. Per altri troppo discontinuo. Per altri ancora semplicemente orribile.

Per noi, invece, lungi dall’essere “il film perfetto”, è comunque perfetto per ciò che vuole essere, ciò che vuole dire, e per quanto umanamente possibile, centra perfettamente i propri obiettivi.

Usciti dalla sala, Beau e i suoi personaggi ci hanno seguito fino a casa, e le domande e le inquietudini che ci hanno suscitato ci seguiranno ancora a lungo.

Storie di persone, di relazioni umane, per scoprire come la violenza si nasconda nella normale quotidianità di tutti noi.

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