La Zona d’Interesse: recensione film di J. Glazer

La Zona d’Interesse è decisamente un film particolare. E, “particolare”, è un termine decisamente riduttivo. Nella nostra preview sui film in uscita a febbraio 2024, lo avevamo associato a “Green Border” come film dalla tematica impegnata, assegnando ad entrambi un punteggio Hype di 8 su 10. E se “Green Border”, come sapete, ci si è rivelato come un dolorosissimo viaggio all’inferno, tanto da beccarsi un soffertissimo 10 su 10, “La Zona d’Interesse” ci si è offerto come un potentissimo, profondissimo, rumorosissimo viaggio nella NOIA.

Recensione NO-SPOILER

Perché la vita della famiglia Hoss, come detto, è noiosa. Drammaticamente, surrealmente, assurdamente noiosa. Rudolf è un cittadino tedesco che in tempo di guerra si alza ogni mattina per andare al lavoro e, incredibilmente, se consideriamo gli anni in cui è ambientato il film, conduce un’esistenza pacifica e felice. Sua moglie, interpretata da una bravissima Sandra Huller, già candidata all’oscar per “Anatomia di una caduta”, è il personaggio forse più interessante della storia. Lei è il carattere più forte e dominante all’interno delle dinamiche famigliari, e Rudolf le è legato con un vincolo, in qualche maniera, di sottile sottomissione.

Lui è il genitore più affettuoso dei due, lei quella più pragmatica, con quel lato narcisistico che la porta a vantarsi dello status acquisito dalla sua famiglia grazie al lavoro del marito, e alla reputazione che si è fatto davanti a Hitler stesso. In diverse occasioni la vediamo compiacersi della splendida casa che si sono costruiti, e del bellissimo giardino con piscinetta che ha curato lei stessa, sullo spazioso cortile. Giardino in cui li vediamo tenere simpatiche feste, con amici, parenti e relativi bambini, che giocano felici tra il prato e la piscina, tenuti d’occhio dai genitori, in un contesto sicuro e tranquillo.

Casa Hoss è un’oasi di pace, in anni in cui l’Europa, e il mondo, contano a migliaia i morti sotto i bombardamenti, ogni giorno. E noi viviamo la storia di un uomo che ama il suo lavoro al punto di portarselo in casa. A volte piacevolmente, come quando dalla fabbrica adiacente arrivano vestiti femminili che le donne di casa possono dividersi a piacere, altre meno, come quando con degli ingegneri si ritrova a discutere della funzionalità dei nuovi forni crematori, i cui cicli di riscaldamento e raffreddamento a camere separate, permetteranno un efficientamento straordinario dei flussi lavorativi. Eppure, boh, non ti riesci ad affezionare al suo personaggio. Lo vedi scherzare con sua moglie, accudire i suoi figli, mettere a letto la piccolina. Ma la sua figura è distaccata, dissociata diremmo, come se vivesse col pilota automatico inserito, senza percepire realmente quanto gli succeda attorno.

A Christian Friedel, in sostanza, è chiesto di “recitare di recitare”. Il suo personaggio, Rudolf, recita di vivere. Simula di essere. Cammina in punta di piedi su uno strato sottilissimo di ghiaccio, conscio che anche solo un respiro troppo pesante possa, in qualsiasi momento, fargli infrangere l’incanto.

La sua esistenza è una messa in scena. E ancora di più lo è quella di sua moglie, che se ne fa regista, però. La sua paura di sprofondare la spinge ad atteggiamenti spavaldi e coraggiosi, che ne fanno in qualche modo l’architrave su cui lo spettacolo si regge. È lei la dominus della casa, quella che definisce e persegue gli scopi a livello famigliare. Rudolf è suo strumento, perfettamente sacrificabile qualora si mostri poco funzionale. Lei la vediamo essere un attimo affettuosa, quella dopo gelida e calcolatrice, a seconda di dove il suo interesse la porti a muoversi. E sebbene il mondo attorno a lei offra non poche evoluzioni e cambi di panorama, la sua famiglia rimane nella sua bolla di immutabile indifferenza, anno dopo anno, stagione dopo stagione, con una caratterizzazione superficiale dei personaggi, che ci offre un quadro di una famiglia dell’epoca a cui non riesci mai a voler bene, cui non riesci mai veramente ad appassionarti.

La fotografia poi ci offre inquadrature che scelgono quei punti di vista usati dalle agenzie immobiliari per mostrare gli appartamenti in vendita sui siti web contemporanei. Avete presente quando cercate casa e guardate decine di annunci, tutti con fotografie grandangolari scattate dagli angoli delle stanze, allo scopo di inquadrarne la porzione più grande possibile, dando la sensazione di spazi anche più ampi che nella realtà?

Ecco, Jonathan Glazer in quelle foto ci fa svolgere la vita dei suoi protagonisti. Con un punto di vista distante, lontano, alienante. Come di chi vede ma non vuole guardare. E la sua fotografia, il suo quadro pacifico, è disturbato da tutta una serie di rumori di fondo, provenienti dalla fabbrica, che i protagonisti hanno imparato ad ignorare, ma che tu invece senti eccome.

Per tutti questi motivi il nostro voto alla storia della famiglia Hoss è un 5. Il dramma è blando, la loro vita noiosa, la loro caratterizzazione superficiale, tolto qualche dettaglio, e il contesto storico è solo uno sfondo.

Recensione CON SPOILER

L’idea del film: la SRORIA SONORA

L’idea di Jonathan Glazer è da 10.

Perché di questo si tratta, quando parliamo di questo film.

Un’idea.

L’idea di portare una storia sonora in un mezzo che per gran parte è visivo, il cinema, permettendoti di viverla al meglio socchiudendo gli occhi e quasi ignorando il vero rumore di fondo di questo film, le voci dei personaggi.

Perché se ti concentri su cosa questi facciano, sulle loro questioni come famiglia, e ignori il vero centro della questione, questo film è una rottura di palle clamorosa.

Glazer cerca il modo di portarti lì, in quel dannato posto, fuori dalla maledetta Auschwitz, e prova a farti condurre una vita normale, a pochissimi centimetri dal posto più schifoso che l’umanità genererà mai. Rudolf si trova a discutere con degli ingegneri della costruzione dei nuovi forni crematori, in grado di bruciare centinaia di corpi alla volta, garantendo un’efficienza di sterminio senza pari, mai vista né prima né dopo.

Ma tu gli ebrei non li vedi quasi mai. Un paio di loro li scorgi svolgere servizi, spingere carriole, ma nemmeno ne distingui troppo i lineamenti, perché per gli Hoss non sono altro che animali da macello.

Finché li hai, se serve, gli fai spostare pesi, sollevare oggetti, ma quando è ora, dal vitellino più carino al toro più sgraziato, addio a tutti, e dentro i prossimi.

Auschwitz è una fabbrica, il cui carburante è il sangue, e i cui prodotti non sono i morti, come molti hanno detto commentando questo film. I prodotti di Auschwitz sono beni economicamente prezzati, inseriti in un ciclo di consumo civile e bellico. Auschwitz forniva servizi all’economia tedesca, alle aziende tedesche. E intorno ad Auschwitz, intorno al suo sistema produttivo, fiorisce tutta una società in grado di ascoltare selettivamente ciò che la aggrada, in grado di distrarsi quando necessario, ma sempre pronta a concentrarsi sulla coltivazione del proprio utile.

Un film che richiama l’atrocità dell’attualità

In maniera del tutto paragonabile a quanto avviene oggi nei campi d’internamento dello Xinjiang, in Cina.

Oggi. Non 70 anni fa. Oggi. Milioni di persone sono detenute illegalmente all’interno di quelli che il governo cinese chiama Centri di istruzione e formazione professionale, in cui l’istruzione evidentemente è forzata, come la permanenza. E che spogliano gli internati di qualsiasi libero arbitrio o progettazione per il proprio futuro, facendone unicamente ingranaggi di una macchina produttiva disumana e disumanizzante.

Proprio come succedeva ad Auschwitz, un carnevale in cui si travestivano esseri umani da cose, e si curava così bene la trasformazione, da convincersi intimamente della trasmutazione.

Hedwig & Rudolf

Hedwig, la moglie di Rudolf, è straordinaria in tutto ciò. Lei si percepisce all’interno della favola conservatrice della buona moglie e della buona madre all’interno di una buona casa, e tutto fila a meraviglia, perché per mantenere in piedi la sceneggiata basta cavarsi i timpani dalle orecchie e gli occhi dalle orbite.

E lei è cieca e sorda. Orribilmente cieca e sorda di fronte a qualsiasi cosa non sia sé stessa, il proprio bene.

Rudolf dice di amare il proprio lavoro. Entrare ad Auschwitz per lui è davvero come entrare nella propria creazione migliore, un grandioso ed efficientissimo marchingegno di cui essere orgogliosi, visti i risultati straordinari che raggiunge, ed il riconoscimento che gli genera.

Chiudete gli occhi, chiudete il pensiero, e date modo al vostro super-io sadico interiore di parlarvi. Immaginate di dimenticare ogni valore, ogni etica, ogni sentimento, e di poter dare vita alla macchina più grande di sempre, i cui risultati siano magnificenti, facilitati dalla libertà rispetto qualsiasi limite morale. Immaginatevi di potervi ergere a Dio Pagano, e di poter spendere vite come noccioline, per un fine, ai vostri occhi, infinitamente più grande.

Viene il vomito ad immaginarlo, ma se scavate nel buio più buio che avete dentro, per un istante potete percepire quel senso di deviata onnipotenza, di distopica grandezza.

Solo che tutto questo non l’ha fatto nessuna divinità malvagia. Nessun essere alieno.

Rudolf e Hedwig sono persone normali. De-sensibilizzate da una narrazione che ne deforma ogni percezione. Esattamente come succede a polacchi e bielorussi in Green Border. Esattamente la stessa, identica cosa.

E l’olocausto si fa terribilmente contemporaneo perché Glazer decide di non mostrarci la tragedia di chi ci muore dentro, ma quella silenziosa e pacifica di chi impara a viverci sopra, persino apprezzandone i vantaggi.

La bambina in negativo

A rompere l’armonia di un racconto incentrato sul dipingere la banalità dei mali più oscuri e disgustosi, l’immagine in negativo di una bambina che, in una versione distorta di una fiaba, nasconde delle mele nel fango e tra le foglie.

Se la scena durante la visione del film un pochino confonde, arriva il regista a spiegarcela, facendo un’ammissione dolorosa.

La bambina ha occhi e cuore, e non riesce a non vedere e non sentire. Non riesce a raccontarsi le bugie dei suoi genitori, ed è spinta da un’umanità profonda e invincibile a mettere del cibo dove i prigionieri possano, il giorno dopo, trovarlo. Glazer fa questo per sé stesso, in parte, per mettere una nota di luce, per quanto distorta, in una vicenda che altrimenti lo risucchierebbe e distruggerebbe.

Perché se permettessimo alle nostre menti di ricreare veramente Auschwitz e tutto ciò che è stata, non potremmo che morirne, interiormente.

Auschwitz e l’olocausto sono lo zero assoluto dell’esistenza umana. Un punto in cui ogni valore si dissolve nel nulla. E in questa dissoluzione, Glazer nasconde una puntina di, insignificante, speranza.

La bambina non può salvare i deportati. Non può nemmeno immaginare, probabilmente, cosa gli succeda nel lager. Ma li ha visti lavorare in condizioni disumane. E a quella visione il suo cuore ha risposto, impazzendo di dolore. E ogni notte, quando può, si avventura lungo il perimetro del campo per nascondere dei beni che spera allevino tanta sofferenza. E Glazer ce la mostra in negativo, proprio a sottolineare la completa opposizione e anormalità del suo comportamento, della sua sensibilità in un contesto abnorme e abominevole come quello in cui lei cresce.

In un contrasto tra la perfezione dell’architettura e dell’organizzazione tedesca, e nazista, e la marcescenza dei suoi valori. La scena, simbolica, che meglio rappresenta questo discorso, è quella con cui il film si chiude: Rudolf dopo essere stato riassegnato a direttore di Auschwitz, scende le scale del palazzo di governo, così bello nella sua architettura razionalista, e viene preso da continui conati di vomito.

Come se i resti stremati e avviliti della sua umanità fossero intenti ad un ultimo, disperato, tumulto, prima di morire.

“La zona d’interesse” è un film che nasce da un’idea straordinaria, quella di mostrare senza mostrare mai, quella di raccontare nascondendo, obbligando il cervello dello spettatore ad andare dove il regista non lo porta.

La regia, come accennato nella versione parodistica della recensione, la prima parte “fintamente no-spoiler”, fa scelte estremamente significative in termini di scrittura, fotografia e montaggio. Le inquadrature sono quasi tutte grandangolari, a creare una visibile distanza dai personaggi, il montaggio è lento, dilatato, con scene mostrate ostentatamente da un singolo punto di vista, senza mai cercare di calarci davvero nella vita dei personaggi, ma tenendoci come osservatori lontani.

Anche la scrittura tende a concentrarsi, volontariamente, su momenti assolutamente insignificanti delle loro vite, come a mostrarti che anche al più stupido e inutile momento delle loro vite, loro conferiscano un valore smodatamente superiore alla tragedia dei deportati. A 10 metri dalle loro vite c’è gente che viene uccisa e incenerita a ciclo continuo, e loro addirittura sono lì a spartirsi vestiti di gente morta.

E ne sono contenti. Proprio come siamo contenti noi di poter utilizzare prodotti tecnologici a basso costo, perché prodotti laddove tutt’oggi tra un lager ed un campo di lavoro non esiste alcuna differenza.

La Zona d’Interesse è un film grandioso perché, ancora una volta, ci parla di persone molto più vicine a noi di quanto ci piacerebbe. E non solo temporalmente.

Rudolf ed Hedwig sono troppo, troppo poco distanti da persone che ci vediamo camminare attorno, nelle strade delle nostre città come nei palazzi di governo.

E in questo senso il film di Glazer è monumento alla memoria e al contempo, oracolo premonitore.

Non è un’opera priva di difetti, forse eccessivamente chiusa in una scelta registica e fotografica integralista, che l’autore non tradisce mai, togliendo al film l’opportunità di avere un’accelerata potente quando forse ne avrebbe bisogno.

Non c’è un climax chiaro, né un cambio di ritmo. E non è un errore, ma una scelta chiara. A noi forse sarebbe piaciuto poter percepire, più volte di quanto non avvenga, qualche elemento direttamente legato alla vita nei lager. Ad un certo punto si sente un dialogo tra dei deportati e delle guardie, con il risultato di un uomo che viene affogato nel fiume per aver disubbidito. Forse avremmo voluto più elementi simili, per ricevere schiaffi potenti, paragonabili a quelli del già citato Green Border.

Ma non succede. I rumori dal campo rimangono distanti, associabili più alla macchina di sterminio che conosciamo, piuttosto che a qualche singola anima al suo interno.

La mancanza di climax particolari rende forse il film un filo troppo lungo, specie per il fatto che, a conti fatti, la vita degli Hoss risulta effettivamente noiosa, nella loro esistenza di medio borghesi tedeschi.

Ma sono tutte scelte autoriali, e criticarle significa semplicemente immaginare delle alternative, senza volerle individuare come errori o mancanze.

Per tutti questi motivi, il vero voto che diamo al film, a fronte di un punteggio hype di 8, è un 9 su 10, che non è un 10 perché a fronte di una scelta autoriale assolutamente convincente, sentiamo la mancanza di qualche cambio di ritmo che ci faccia uscire dalla visione con le gambe spezzate, come successo per “Beau ha paura” di Ari Aster e “Green Border” di Agnieszka Holland. La narrazione di Glazer spinge più sulla chiave intellettuale, e invece di accoltellare le nostre sensibilità, le perfora più sottilmente, in molti punti, generando uno stato di malessere e sconforto che non sfinisce e consuma, come fanno i film sopracitati, ma ferisce cerebralmente.

Storie di persone, di relazioni umane, per scoprire come la violenza si nasconda nella normale quotidianità di tutti noi.

info@myreasons.it

Reasons: articoli correlati