Ci sono due tipi di persone al mondo. Il primo tipo è composto da chi quando vede quest’uomo, pensa “Ah, John Krasinski”.
E poi c’è chi, invece, lo identifica completamente con “Jim” di The Office.
E, beh, John Krasinski, fa parte di questo secondo gruppo. E in “IF – Imaginary Friends” ha agito di conseguenza. Si è auto-assegnato la parte di un Jim.
Un Jim senza Pam. E col cuore spezzato. Fisicamente, spezzato.
Bea: la protagonista di IF-Gli amici immaginari
IF – Imaginary Friends, è un film che punta a farvi piangere. Ve lo dice subito, è proprio la premessa.
Le prime scene del film ci portano nell’infanzia di Bea, interpretata da una adorabile Cailey Fleming.
La bimba cresce con due genitori amorevoli e dotati di un forte “bambino interiore”, che li aiuta a creare intorno alla loro bambina, un’atmosfera giocosa, felice e unita. Bea è felice, piena di attenzioni, serena, nel suo caldo, confortevole, rassicurante, nido famigliare.
Finchè.
Timeskip.
Bea è più grande, ha 12 anni, e l’espressione indurita di una bambina che è dovuta crescere in fretta, mettendo da parte l’infanzia e la spensieratezza per farsi adulta, e sopperire così alla scomparsa di sua mamma.
La prima scena ci confonde, perché la vediamo venire accolta da una signora, che presumibilmente è sua nonna, all’interno della casa in cui l’avevamo vista all’interno del flashback precedente ai titoli di testa.
Come se fosse tornata da un viaggio, o forse da un collegio. La situazione è straniante, finchè la donna non la accompagna in ospedale, dove Jim, scusate, John Krasinski, suo padre, la aspetta.
E qui se avete visto il film, e conoscete The Office, capite perché continuiamo a chiamarlo Jim. Ci mancano solo le faccette in favor di camera, per il resto è lui.
Qui scopriamo che l’uomo è malato di cuore, e deve subire un’operazione. E per quanto lui faccia di tutto per rassicurare sua figlia, con un atteggiamento volutamente buffonesco volto a distrarla, è chiaro come si tratti comunque di una situazione delicata. In cui Bea, comprensibilmente, teme di perdere l’ultimo punto di riferimento rimastole.
E qui, la prima lacrimuccia, scende.
Jim – lo chiameremo così anche per il fatto che non sappiamo il nome del suo personaggio, Bea lo chiama solo papà da quel che ricordiamo – raccomanda a sua figlia di non perdere tempo a gironzolare per i corridoi dell’ospedale. Vuole che la vita si goda i giorni del suo ricovero facendo cose che la divertano, che la distraggano. Perché è perfettamente conscio di come quella bambina si sia indurita per far fronte al dolore della perdita della mamma. Ed è altrettanto conscio di rischiare di causarle un ulteriore trauma, qualora la sua operazione andasse per il peggio.
Ma con tutta la dolcezza e saggezza del mondo, da padre amorevole e responsabile, sorride di fronte alla paura e invita la sua bambina a vivere. A sorridere. A godersi il momento.
Perché la vita non è il domani, non sono le prospettive. La vita è il momento stesso in cui ti trovi. E non c’è futuro, non c’è morte, non c’è dolore. C’è l’istante presente, che diventa infinito, se vissuto in pieno.
E nella vita di Bea, in quel momento, c’è un padre che la ama, una nonna che si prende cura di lei, e delle belle giornate di sole.
Se fermi il momento, stoppi il tempo e ti concentri sui dettagli, è una fotografia luminosa, di una felicità straripante.
E Jim lo sa. E questo gli dà felicità, anche di fronte alla paura della morte.
Ma Bea no. Non fino in fondo almeno. E quella che vediamo è sempre, e comunque, una bambina addolorata e spaventata. E Cailey Fleming, con quei lineamenti così definiti, come fossero disegnati, rappresenta alla perfezione la psicologia del suo personaggio.
La sua espressione spesso seria, con la mascella serrata e gi occhietti a fessura, rende proprio l’immagine di una bambina fattasi adulta. Che rinuncia a giocare, e persino a sognare, perché ha dovuto imparare sulla propria pelle che la vita può toglierti ciò a cui tieni di più, in qualsiasi momento. E se la prima volta sei impreparata, e il dolore è lancinante, la seconda volta, quasi, te lo aspetti. E quel senso di dolorosa anticipazione ti si scolpisce in volto.
Probabilmente il fatto che la Fleming abbia già 17 anni, le conferisce quell’aspetto particolarmente maturo per una dodicenne, con i lineamenti più definiti e delineati rispetto a quella che è la facciotta di una dodicenne.
IF: gli amici immagianari
Da questo momento in poi, comincia il film vero e proprio. Gli incontri con Krasinski, nelle visite all’ospedale, scandiranno il passare dei giorni e l’avvicinarsi dell’operazione. Bea, fuori dall’ospedale, inizia quello che è un viaggio di regressione. Sì, perché dall’adulta che è diventata, anzitempo, deve tornare bambina. Ed essere bambini non è un puro fatto anagrafico.
L’infanzia è il regno della fantasia, della speranza e della fiducia nel futuro. È un’età carica di senso. Perché non ci sono costrizioni e forzature, e siamo in grado di esprimere la nostra umanità per mezzo delle due cose più straordinarie che la nostra natura ci abbia donato: il gioco e la creatività.
Cose cui Bea dice subito di aver rinunciato.
Perché le ricordano la bambina che non può più essere.
Quella bambina che però, nel suo profondo, ancora vive. E che le permette di vedere ciò che nessun’altro sembra riuscire a vedere. E se ad Harry Potter e Luna Lovegood sono toccati i Thestral, a Bea è andata meglio, perché lei vede tutti gli IF, gli amici immaginari partoriti dalla fantasia di altri bambini.
Bambini che però, una volta cresciuti, li hanno abbandonati. E con loro hanno abbandonato sogni, speranze e ambizioni. Diventando persone un po’ più tristi. Sicuramente malinconiche.
Ryan Reynolds: il coprotagonista di IF-Gli amici immaginari
A questo punto del film incontriamo, infine, Ryan Reynolds, l’annunciato co-protagonista del film.
Il suo personaggio è una specie di tramite tra il mondo degli IF e quello degli umani. Come Bea, è in grado di vederli e interagire con loro, ma dà l’idea di essere piuttosto stanco di tutte le loro stranezze ed eccentricità, e vive la sua condizione “ufficio di collocamento per IF” con estrema frustrazione.
Tanto che il suo personaggio, in generale, fatica ad entrarti nel cuore. Almeno inizialmente.
E questo, in qualche modo, rappresenta un difetto del film. Ed uno dei principali motivi per cui la parte centrale della pellicola stenta a decollare. Proprio come dicevamo qualche giorno fa per “Il Regno del Pianeta delle Scimmie”, la mano dello sceneggiatore, in questo caso Krasinski stesso, si fa evidente. Appare, a schermo, a distogliere dagli eventi, dando quella sottile sensazione di forzatura, che uccide un pochino la sospensione dell’incredulità.
I dialoghi diventano un pochino troppo prevedibili e “formali”, come fossero strappati a forza da una commedia di Natale anni ‘80/’90. I personaggi dicono e fanno quello che ci si aspetta che facciano, senza quei guizzi di originalità e intraprendenza che ci fecero amare alla follia il Wonka di Chalamet. E il ritmo del film un pochino stagna, incapace di dare quelle accelerate emotive di cui questa storia avrebbe bisogno. Gli IF, poi, a parte qualche eccezione, si differenziano molto poco. Nessuno di loro, tolto il Blue di Steve Carrell – che qualcosina di Michael Scott, comunque, ce l’ha – si differenzia poi molto per carattere. Mancano di una caratterizzazione forte. E difficilmente ti strappano una risata convinta.
IF – Gli amici immaginari è un film sia per adulti che per bambini
Eppure sto film la lacrima te la tira giù per davvero. Ci riesce.
Bea grazie agli IF torna molto presto ad avere i tratti e le espressioni di una bambina. Forte, matura e consapevole. Ma bambina. Ed è lei, e non il contrario, a condurre Ryan Reynolds alla riscoperta del suo bambino interiore.
La cosa narrativamente non convince tantissimo. Però, fattualmente, funziona. Perché Krasinski e Reynolds, in questo film, al netto dei difetti, ci mettono il cuore. E si sente. E la storia, quei tre o quattro schiaffi emotivi, te li dà. E non grazie a chissà quali guizzi di regia – perché non ci sono picchi esagerati – ma grazie alla personalità e al talento di interpreti straordinari. Che vendono il ghiaccio agli eschimesi, e strappano lacrime anche ai sassi.
Reynolds si spoglia dell’umorismo cinico di cui è maestro, e diventa un adorabile fratello maggiore. Krasinski invece non deve nemmeno spogliarsi di nulla, si limita ad essere Jim, e tanto basta.
Idem Steve Carrel, che dà la voce a Blue, personaggio che gli calza a pennello. E che nella sua scoordinata e incespicante ricerca di amore, ci ricorda proprio il Michael Scott di The Office.
Tutti loro, insieme ad un cast che, tendenzialmente, fa impallidire quasi qualsiasi altro film mai prodotto – Krasinski ha un saaaaacco di amici ad Hollywood, è palese – ci offrono un film di Natale che, al netto di diversi limiti strutturali, funziona. Commuove. Intenerisce.
E ci viene seriamente da domandarci perché questo film non esca nel periodo natalizio. Anche perché se al posto del sole, le strade di New York avessero ospitato la neve, l’atmosfera ne avrebbe guadagnato non poco.
IF sarebbe il perfetto film da far uscire il 15 di dicembre, non il 16 di maggio. Perché dicembre è quel periodo in cui le famiglie trovano incredibilmente naturale riunirsi al cinema. E questo film parla a loro. Tanto lato figli, quanto lato genitori. Perché al di là del messaggio palese, che vuole incitare ognuno di noi a riscoprire la propria immaginazione, la propria sensibilità e, di conseguenza, gentilezza, c’è di più.
Il comportamento di Jim di fronte alla morte e al dolore è pressoché filosofico. Non c’è una sottovalutazione superficiale di cosa significhi la perdita di una moglie e di una madre, giusto per creare la figura tragica del vedovo e dell’orfana. C’è piuttosto un’affermazione della vita sulla morte, dell’amore sulla depressione, della speranza sull’abbandono.
Jim sa di poter morire. E soffre immensamente innanzi all’idea di dare questo dolore alla sua bambina. Ma non è disperandosi o abbruttendosi che migliorerà la situazione. E allora scherza. Fa il buffone. Ride in faccia alla paura.
E non è facile. Non è cosa per tutti, e non è detto che tutti debbano riuscirci o anche solo provarci. Ma cavolo se è una lezione preziosa.
Jim sorride, scherza e fa il buffone, e in questo ama sua figlia di un amore sconfinato. Più grande di ogni paura. Quell’amore di chi sorride per aver avuto della bellezza nella propria vita, piuttosto che disperarsi al pensiero di averla persa.
Il valore di IF, a fronte, come detto, di difetti piuttosto grossi, sta tutto qui.
E per questo, consigliamo a chiunque se la senta, di vederlo.
Se l’immaginazione, la creatività e la speranza, sono cose che vi siete lasciati alle spalle col passare degli anni, e non avete nessuna intenzione di recuperarle, questo film non è per voi, non vi intratterrà e non vi offrirà scene particolarmente significative. Non siamo sui livelli di Wonka, quanto a fattura tecnica e picchi di regia. Ma se, invece, col vostro bambino interiore avete un dialogo che volete rafforzare e ravvivare, questo film per voi sarà un bel 7, a crescere fino ad un 7,5 ed oltre, qualora certi dettagli della vita di Bea vi coinvolgano intimamente.
Di fronte a certi temi, e ad una determinata capacità di strappare lacrime anche a chi normalmente non è facile alla commozione, il giudizio tecnico rispetto a scrittura e regia, passa in secondo piano. Specie quando hai le musiche di Michael Giacchino a potenziare una narrazione comunque fatta col cuore.
Che poi c’è sempre da commuoversi, di base, ogni volta che Steve Carrell e John Krasinski si trovano sullo stesso set.