Civil war: recensione film di Alex Garland

Alex Garland, con Civil War, ci mostra un film che nessuno, al mondo, ha veramente voglia di vedere.

Perché afferra saldamente un angolo del velo di Maya, che ci nasconde il mondo per com’è, e lo strappa abbastanza da farci vedere oltre. E tutta la rabbia, l’odio, e la polarizzazione che attraversano il nostro mondo, si incarnano nel mostro più abnorme, viscido e angosciante che esista: la guerra.

E gli Stati Uniti in cui tutti hanno accesso facile alle armi, e in cui la politica ha portato ai massimi livelli la demonizzazione dell’opposto, uccidendo ogni possibilità di dialogo e reciproca comprensione, diventano il teatro perfetto per una tragedia maestosa e terrificante.

E così verosimile da sembrare vera.

Recensione NO-SPOILER

Civil War è un film della A24, il più costoso che abbia mai prodotto, e incarna perfettamente lo spirito della casa di produzione, il coraggio di proporre un cinema diverso, profondo, di una qualità che difficilmente tradisce, anche quando il botteghino non la premia, come nel caso di “Beau ha Paura”, che per noi è un capolavoro assoluto.

Civil War è un film di guerra come gli altri?

Tornando a noi: Hollywood, tra film sulla Seconda Guerra Mondiale e sulla guerra in Vietnam, ci ha abituato a pensare alla guerra secondo certi stereotipi, certe immagini condivise che, per quanto ce la facciano temere – in teoria – ce ne danno un’immagine codificata e in un certo senso rassicurante. Perché le guerre avvengono o nel passato o in luoghi lontani, remoti, contro persone così diverse da noi da farci facilmente identificare con la fazione dei buoni. E non importa se qui e lì vedi anche il soldato americano di turno macchiarsi di qualche atrocità: aveva comunque un mondo “superiore” e più “civilizzato” da proteggere, nella nostra percezione.

Vero Clint Eastwood? Il suo “American Sniper” è un ottimo esempio di ciò.

In questo modo, per tanti, guardare “Salvate il Soldato Ryan” o “Top Gun” diventava la stessa cosa, offriva emozioni simili, tra eroismi, senso d’impresa e catarsi emotiva.

Alex Garland con “Civil War” ci porta in tutt’altro posto, tutt’altra guerra, tutt’altra prospettiva. E per farlo, filtra la storia non con l’occhio del cinema, ma con quello della fotografia di guerra. E non mette i buoni contro i cattivi, ma i buoni contro i buoni, i normali contro i normali, e ci mostra come la nostra percezione di bontà e normalità, sia un inganno clamoroso. E doloroso.

Perché l’America di Civil War, è fatta di simili che si affrontano come fossero alieni, gli uni agli altri. Vicini di casa che si vedono come bestie da macellare, e che provano lo stesso sentimento nel farsi la barba e nell’ammazzarsi a vicenda.

La trama e i personaggi

E tutto questo ci viene raccontato da quattro punti di vista, quelli dei quattro personaggi principali, che attraversano, da New York a Washington DC, un paese dilaniato da una guerra fratricida combattuta tra vicini di casa che al posto di fucili, bastoni e molotov, hanno a disposizione caccia di ultima generazione, carri armati iper-tecnologici e ogni genere di artiglieria.

Personaggio centrale nella narrazione, è Lee Smith, una reporter di guerra, interpretata da una splendida Kirsten Dunst, che dà vita ad una delle sue interpretazioni migliori. Con lei c’è Joel, anche lui reporter, interpretato da Wagner Moura, il Pablo Escobar di Narcos. Poi abbiamo Jessie, interpretata da Cailee Spaeny, la Priscilla di Sofia Coppola, qui nei panni di una giovane fotografa che si attacca, professionalmente e – in teoria – emotivamente, a Lee in un rapporto un po’ madre/figlia, un po’ maestra/studente, a metà tra l’umano desiderio di rapporti affettivi e la fredda consapevolezza di poter morire da un momento all’altro, e di dover comunque attendere ad un compito superiore, quello di fotografare gli orrori più oscuri, quanto più da vicino possibile.

Ultimo, ma non per importanza, Sammy, interpretato da un adorabile Stephen McKinley, cui abbiamo già voluto bene in Dune e nel sopracitato Beau Ha Paura. Lui è un vecchio giornalista, la figura più saggia del gruppo, sempre che si possa definire saggio chi decida di fare quel lavoro e intraprendere quel genere di viaggio.

Ci riferiamo al viaggio che vogliono fare Lee e Joel, da New York a Washington DC, nella speranza di essere gli ultimi giornalisti a intervistare il presidente prima che le forze congiunte di California e Texas conquistino DC e lo uccidano.

Il background politico del film

Garland fa una scelta precisa a proposito del background politico in cui si svolgono i fatti del film: non ce lo spiega. Il film comincia in medias res, sappiamo soltanto che il presidente degli Stati Uniti si è arrogato un terzo mandato, cosa illegale, ha sciolto l’FBI e ha autorizzato bombardamenti con droni sul suolo americano, contro cittadini americani. Situazione che ha spinto la liberale California e il Texas conservatore ad unirsi, nonostante le differenze, per buttar giù un presidente ed un governo fascista.

Un genere di situazione che, fino ad una decina di anni fa, avremmo definito estremamente fantasiosa. Ma che oggi suona drammaticamente verosimile, specie dopo i fatti di Capitol Hill del 2020, con il loro ispiratore, Donald Trump, dato per favorito nella corsa presidenziale che si terrà a novembre 2024.

I reporter di guerra

Tornando al film, i nostri quattro reporter si imbarcano in un viaggio che anche solo concettualmente risulta una follia suicida. E sono loro i primi a dirlo a sé stessi.

Ma sono come dipendenti dall’adrenalina, e lo capiamo dal desiderio, umanamente folle, di avvicinarsi quanto più possibile agli scontri armati, al punto da stare letteralmente in mezzo alle bande di soldati che si sparano, per fotografare la morte nel momento stesso in cui comincia, quei fulminei istanti in cui i proiettili attraversano la carne dello sfortunato, e la sua coscienza inizia a svanire, facendo di un uomo, di un’anima, un oggetto, un ente inanimato.

Il quadro più nitido e crudo del viaggio dall’esistenza alla non esistenza, dall’esserci al mancare, dal fare al subire.

I reporter di guerra sono quelle creature che, drogate di adrenalina e anestetizzate da essa, si siedono accanto alla morte, la contemplano e spesso la lambiscono, quando non finiscono direttamente tra le sue braccia, per raccontarcela nel modo più diretto che esista, portando i nostri occhi, e la nostra capacità immaginativa ad immergersi in essa.

Ma la nostra mente ci protegge facendo delle loro foto una finzione. Nel profondo ci raccontiamo che quelle persone siano personaggi di uno spettacolo teatrale. Calato il sipario, le loro storie svaniscono, e come attori, raggiunte le quinte, torneranno alla loro vita normale. Fatta di pace e rapporti umani “normali”.

Ma Alex Garland ci porta ancora più dentro la realtà della guerra, ancora più vicini di quanto non facciano i reporter con le loro foto, con la loro folle rincorsa della morte.

Ci fa piccoli piccoli, e ci fa sedere sulle loro spalle mentre si sporgono da un riparo per fotografare l’uomo che potrebbe ucciderli nel momento stesso in cui questi preme il grilletto per sparare. E fotografano con fredda lucidità la pallottola che si appresta a spegnere una vita, se non addirittura la loro stessa vita. E si ritrovano dannatamente spesso a dover pulire i propri vestiti, la propria strumentazione e attrezzatura, dal sangue di qualcuno che conoscevano, fosse un collega, un collaboratore o banalmente un soldato conosciuto poche ore prima.

E se questa vi sembra fantasia o esagerazione cinematografica, vi basti sapere che alla nostra anteprima erano presenti Massimo Alberizzi e Giovanni Porzio, reporter di guerra che hanno seguito in prima persona le peggiori scene di guerra in Africa Centrale, in Siria, in Afghanistan, in Palestina e via dicendo. E a film finito, hanno confermato la drammatica e perfetta veridicità della messa in scena di Garland. E Alberizzi ha confessato l’invidia per i colleghi che in questo momento si trovano a Gaza a documentare la situazione. E se consideriamo che a gennaio si contavano 80 giornalisti morti dall’inizio dell’invasione della striscia, capiamo quanto dia dipendenza quella sensazione adrenalinica di trovarsi così vicini alla morte.

Joel, nel film, va letteralmente in estasi, all’idea di trovarsi in mezzo agli scontri a fuoco. E in qualche maniera lo stesso vale per Lee. E Alberizzi e Porzio confermano tutto. Non solo con le parole. Ma con la mimica ed il tono di voce.

Civil War e i punti in comune con The Last of Us

Il viaggio di Lee, Joel, Sammy e Jessie prende quindi la forma di un road movie di formazione, in cui, in particolare, vediamo cambiare, tanto, Jessie e Lee, in un percorso inverso di umanizzazione e de-umanizzazione. Con la ragazza che prova per la prima volta il potere assuefacente dell’adrenalina e Lee che in qualche modo se ne disintossica. E la donna si fa ragazza mentre la ragazza si fa donna.

Chi ha giocato The Last Of Us, ancor più di chi ha solo visto la serie, sentirà un parallelo fortissimo tra questo film e le vicende raccontate da Druckman e soci. Perché il viaggio di Joel e Ellie somiglia tantissimo a quello di Lee e Jessie, e che a far da sfondo ci sia un’epidemia fungina o una guerra civile, conta davvero poco. Le Americhe di The Last of Us e di Civil War si somigliano drammaticamente, e questo testimonia lo straordinario lavoro di entrambi i team creativi nel trasporre un lato oscuro e tragico della psicologia umana, quel lato che, allontanandoci dalle grandi guerre del ‘900 e convincendoci di aver posto fine alla storia, pensavamo di esserci lasciati alle spalle.

Valutazioni tecniche e voto

Ma la guerra in Ucraina, poi quella in Palestina, e quella che rischia ora di iniziare tra Israele e Iran, ci hanno dato un violento schiaffo, per riportarci a inciampare, cadere e sprofondare, in quella stessa storia che pensavamo di aver rinchiuso tra le pagine dei libri, e sulla cellulosa delle pellicole cinematografiche.

Civil War è uno splendido pezzo di cinematografia. Le Sony Venice 2 con cui il film è girato, ci offrono immagini nitide, molto a fuoco, con una color che ci rende un quadro documentaristico, più che cinematografico.

Non abbiamo la grana della pellicola a separarci dalla realtà angosciante e verosimile del film, ci sembra tutto reale, come se Lee, Joel, Sammy e Jessie ci stessero mostrando una storia vera, attualmente in corso, in un mondo che non è più quello lontano e diverso dell’Africa, del Sud America o di qualche angolo sperduto d’Asia. Quelli ad ammazzarsi per un bicchiere d’acqua, per il colore della pelle, o per gli integralismi politici, siamo noi. Civil War ci obbliga a guardarci allo specchio. Regia, fotografia e interpretazioni risultano perfette in questo senso. Lee e Jessie sono uguali e opposte, sono persone che potremmo tranquillamente conoscere, se non essere noi stessi, sottoposte ad una realtà assurda, tragica e terrificante, rispetto alla quale fanno la cosa più umana che esista: vi si abituano.

Proprio come noi ci siamo abituati al clima di tensione e odio che permea la nostra politica, i nostri rapporti lavorativi e persino famigliari. In un omo omini lupus che ci porta a mentire alle persone a noi vicine per beceri fini economici. Che ci porta persino a ignorarne la sofferenza giustificando il proprio egoismo con questa o quella necessità ineluttabile, trasformando il prossimo non in un simile, ma in uno strumento per il proprio vantaggio, per il proprio interesse più cieco. E ci rassicuriamo convincendoci che non sia poi tanto grave, che non si sia certo noi a dover cambiare e salvare il mondo. Senza renderci conto di essere tutti partecipi e complici del clima tossico di cui poi ci lamentiamo. Dando la colpa agli altri.

Senza capire che gli altri, siamo noi. Precisamente, noi.

Un film dalla scrittura così lucida, dalla regia e dalla fotografia così affilate e coerenti, è in grado di colpire e scuotere le coscienze di chi sia pronto a guardarsi dentro e tutt’attorno. La narrazione ha un ritmo perfetto, con un crescendo di violenza e orrore al proseguire del viaggio, e all’avvicinarsi alla meta. E il finale vede l’esplosione della tensione, oltre che dei combattimenti, pur contenendo forse il momento che meno funziona in tutto il film, pur essendo perfettamente coerente con ciò che il film vuole dirci.

Per tutti questi motivi, il nostro voto al film è un 9.

A regia, fotografia e interpretazioni, tutte pressoché perfette per gli scopi della narrazione, si unisce anche un’ottima colonna sonora, di cui fanno parte anche i silenzi assordanti che accompagnano determinate scene. Leggera delusione per una scena sul finale, un pochino troppo forzata, più nella realizzazione che nella sostanza, ma incapace di scalfire il giudizio molto positivo sul film di Garland e della A24, casa di produzione che non smette di regalarci enormi soddisfazioni negli ultimi anni.

Recensione SPOILER

Come detto, il film ci è piaciuto tutto, molto, Garland sceglie le situazioni e i modi migliori per raccontarci i personaggi nei loro tratti caratteriali fondamentali, senza necessariamente parlarci molto del loro passato. È una caratterizzazione sottile, minimale, ma straordinariamente efficace, perché ci fa rendere conto della loro maturazione senza doversi perdere in spiegoni o flashback. Questo è vero particolarmente per Lee e Jessie, i personaggi principali del film, il corrispettivo di Joel ed Ellie di The Last of Us. Se nell’opera videoludica e seriale di Naughty Dog vediamo Joel ammorbidirsi e rientrare in contatto coi propri sentimenti, coi propri istinti genitoriali e in generale con la propria umanità, lo stesso possiamo dire di Lee Smith in questo film. Il contesto è lo stesso, il viaggio in un’America disastrata, disumanizzata e mortalmente pericolosa. E il catalizzatore di questo cambiamento è lo stesso: la condivisione del viaggio con una ragazzina innocente, spaventata e sola. E Jessie, come Ellie, matura, cresce e si indurisce. Perché per quanto ci siano Joel – quello di The Last of Us – e Lee a proteggerle, il mondo in cui crescono è brutale, violento e pericoloso. E il contesto, nella formazione di una persona, non è mai soltanto uno sfondo, ma è un’agente fondamentale e inevitabile. Ellie e Jessie devono imparare a sopravvivere al pericolo e al dolore. Il dolore di vedere così tanta morte, intorno a sé, da dovercisi necessariamente abituare.

E a quel punto, che muoia uno sconosciuto, una persona cara, o tu stessa, fa davvero poca differenza. E non è la ricerca della felicità a darti un motivo per svegliarti ogni giorno, bensì l’adrenalina.

E ti senti vivo come non ti sei sentito mai, perché ogni istante è prezioso, ogni istante potrebbe essere l’ultimo, e sei felice per ogni nuovo respiro che ti è concesso di esalare.

O così, o muori. E quella che potrebbe sembrare follia, nei personaggi della storia come nei giornalisti intervenuti in sala, Alberizzi e Porzio, diventa una normalità necessaria e ineluttabile. Perché se non sei così, quel mestiere non puoi nemmeno immaginare di farlo.

Qualche critica su una delle scene finali

Quello che non ci ha fatto impazzire del finale, è un dettaglio di una delle ultime scene.

Siamo nella Casa Bianca. A pochissimi passi dal presidente. Sono in corso gli ultimi scontri a fuoco, i secessionisti hanno ormai vinto, e le guardie del presidente sanno che non esiste possibilità di resa, perché saranno uccise comunque, quindi combattono fino alla fine.

Jessie si sporge per scattare una foto alla guardia presidenziale che, non riconoscendola come giornalista, sta per spararle. Lee, che per tutto il film professa il fatto che come fotografa e giornalista, il suo compito sia di documentare, non di aiutare le persone in difficoltà, rischiando di finire ammazzata, si getta su di lei, la butta a terra, e si prende la pallottola nella schiena, per poi cadere, morta, addosso a Jessie, salvandola.

Tutto ok, nell’evoluzione caratteriale di Jessie avevamo visto questa completa perdita di ogni freno ed inibizione, col risultato di diventare enormemente dipendente dalle più intense scariche adrenaliniche. Questo le fa perdere ogni prudenza, e nel combattimento finale arriva persino a ostacolare erroneamente i soldati con cui avanza, tanto che capisci chiaramente che o lei, o Lee, dovranno morire. E paradossalmente, avremmo preferito fosse lei a morire, Jessie.

Il nostro problema con la scena è che, per il modo in cui è girata, risulta un tantino forzata. Lee vedendo Jessie scoperta, si getta su di lei, e normalmente si dovrebbe lanciare con lei, lateralmente. Invece arriva sulla ragazza, e con un movimento forzato, la butta a terra e rimane in piedi, dritta, ad aspettare il colpo. Per poi morire guardando Jessie negli occhi. Con Jessie che ne scansa il cadavere come fosse solo una vittima collaterale, sconosciuta, dimostrando di aver imparato la lezione che Lee pensava di volerle insegnare. Joel, come Jessie, dimostra grande freddezza e, raccolta la ragazzina, procede in cerca del presidente, fregandosene completamente della morte dell’amica e collega.

L’adrenalina, ancora una volta, anestetizza ogni loro empatia, ogni loro dolore. Sono stati così vicini al farsi ammazzare a loro volta, che non riescono, in quel momento, a provare nulla che non sia comunque l’eccitazione di essere vicini allo scoop, a ritrarre il presidente che viene ammazzato dai soldati ribelli.

Il rapporto Jessie – Lee

Questa scena va in netto contrasto con quella avvenuta nella fattoria, durante l’ultimo tratto del viaggio, quando Jessie si fa catturare da dei soldati che non sappiamo nemmeno a che parte appartenere. Lì tanto Lee, quanto Joel, decidono di rischiare tutto per salvare Jessie, col solo Sammy che li invita, saggiamente, ad abbandonarla, conscio di come sia una missione suicida. Ma lì i due reporter dimenticano la loro “etica” – per modo di dire – lavorativa, e si mettono a rischio per salvare la ragazza. Dando vita alla scena più intensa del film, con Jesse Plemons, nei panni del soldato, che interpreta un personaggio tanto terrificante, quanto verosimile.

Non c’è nulla di fittizio nel suo razzismo, nella sua spietatezza, nel suo modo bestiale di giocare con la vita di quegli sconosciuti, nel mentre che con i suoi colleghi, svuota un camion pieno di cadaveri civili in una agghiacciante fossa comune.

In questo momento vediamo una Lee diversa da quella che, qualche scena prima, diceva a Jessie che se si fosse fatta ammazzare, lei avrebbe fotografato il momento e venduto la foto ad un giornale, all’interno di una normalità lavorativa per cui quella cosa in passato l’aveva già vissuta. E vi si era abituata.

Qui Lee tiene a Jessie come una madre tiene ad una figlia. E trasporta persino Joel in questa impresa suicida, lui che come prima cosa, da ubriaco, aveva provato a portarsela a letto, la ragazzina.

Questo lato non viene particolarmente approfondito, ma rientra perfettamente nel nuovo quadro sociale in cui vivono. Jessie ha 23 anni, nonostante ne dimostri 14, Joel molti di più. Ogni giorno potrebbero morire, ogni giorno sanno che avranno a che fare con atrocità fuori dal comprensibile, ogni momento di pace è un momento prezioso, che si usi per dormire o per sc… vabbè avete capito.

Perciò, anche nel momento in cui Lee scopre che Joel ha provato a “mh” con Jessie, per quanto disapprovi, decide di soprassedere. Fanno tutti finta di nulla perché in quel contesto, non è poi cosa così importante. E Joel crea anche altre situazioni in cui, viscidamente, cerca di sedurre Jessie. Ma per quanto possano dare fastidio, alla vita, smetti di pensarci dopo poco. Perché continuano ad esplodere bombe sempre più grosse, sulla loro strada. E tutto quanto diventa secondario, rispetto alla costante incombenza della morte. La salute mentale dei personaggi viene portata così tanto “oltre”, che microtraumi, microaggressioni o aggressioni vere e proprie, si perdono e confondono come cristalli di sale nel mare.

Ultime digressioni prima di chiudere

A salvare il gruppo da Plemons e soci, nella fattoria, è Sammy, il saggio. Che per un attimo, tanto saggio non è. E nonostante avesse, poco prima, invitato Lee e Joel ad abbandonare Jessie, dandola, giustamente, per spacciata, un attimo dopo salva tutti, investendo i soldati e portando via il gruppo guidando più velocemente che può. Col risultato di beccarsi una pallottola e morire.

Per lo spettatore non è una morte qualsiasi, come di tanti soldati che ha visto morire fino a quel momento. Complice il faccione tenero dell’attore, ti dispiaci nel vederlo morire. E si dispiacciono anche gli altri, con Joel in particolare che finisce ad urlare come un pazzo, con la regia che ne soffoca le grida azzerando l’audio in quel momento. Ma c’è del sangue da pulire, in macchina. E Sammy non è certo l’unico amico che hanno visto o vedranno morire. Quindi tanto Lee, quanto, a questo punto, Jessie, puliscono la macchina, si ricompongono, e si preparano a proseguire. In questa scena vediamo morire anche degli amici di Joel, con cui sviluppiamo empatia solo nel momento del trapasso, perché nei pochi minuti precedente, li vediamo comportarsi come degli idioti, contagiando anche Jessie nella loro avventatezza.

Per il fatto che già qui, Jessie avesse iniziato a comportarsi in modo avventato e irresponsabile, il film sembrava suggerirci che sarebbe stata lei, a morire. E forse, una scelta simile, ci avrebbe persino fatto alzare il voto del film da 9 a 9,5. Non per antipatia nei confronti del personaggio. Ma perché forse ci sarebbe interessato di più il dramma di vedere Lee guardare Jessie morire.

Perché è Lee, nell’assalto finale alla Casa Bianca, a mostrare segni palesi di panico, in una condizione di stress disumana. E non l’avevamo mai vista così prima. In questo ricorda, tantissimo, ancora una volta, il Joel di The Last of Us, che, dall’essere un assassino spietato e senza alcuna paura di morire, inizia ad essere scosso da terribili crisi di panico all’idea di partecipare a scontri a fuoco in cui Ellie possa morire. E Lee, a Washington DC, prova le stesse identiche cose. Non ha nessun tipo di paura per sé stessa. Teme per Jessie.

E il fatto che sia Lee a morire, ci sta, certamente.

Ma il modo simil-eroico e la posa plastica e forzata che assume nel salvare la ragazza, eh, non ci ha fatto impazzire. In quel momento, avendo per un secondo l’arroganza di sostituirci al regista, avremmo trovato più simbolico, e potente, far morire Jessie, col corpo della ragazza cadere al suolo visto nel riflesso dello sguardo di Lee. Incapace, a quel punto, di scattare una foto. Perché incapace, per la prima volta, ci rendere quel momento tragico, un ricordo. Una notizia. Invece abbiamo la scena opporta. Lee muore, e Jessie le scatta una foto. Anzi, tante foto. A documentare gli ultimi istanti di coscienza, e i primi di assenza, mancanza. Morte.

 Conclusioni

Comunque la si veda, qualsiasi cosa si pensi del finale, il film è potente, sconvolgente e violento. E ci è piaciuto tanto. Tanto quanto ci ha spaventato. La situazione, negli USA, ma nell’occidente tutto, è tesa come forse non lo è mai stata dal dopoguerra ad oggi. Noi continuiamo a sottovalutare tante piccole cose, che tanto piccole non sono.

Potremmo aprire un discorso, estremamente politico e sociale, che allungherebbe a dismisura questo video, portandolo fuori dal campo cinematografico. Ma non lo faremo. Non questa volta.

Quello che facciamo, però, è raccomandarvi, caldamente, di vedere quest’opera, e rivederla, e approfondirla. E usarla per comprendere un pochino di più cosa ci sta accadendo attorno, tutti i giorni.

Fatene un veicolo per la curiosità. Usatelo per porvi delle domande, per mettere in questione tutte quelle cose che oggi ritenete normali, e che venti anni fa non lo erano, o che non lo saranno tra cinque.

E, cosa ancora più importante, anzi, direi, fondamentale: iscrivetevi al nostro canale, mettete like al video e diteci la vostra in un commento.

Sentiamo di esserci dimenticati di dire una marea di cose su questo film, perché ci ha stimolato davvero un miliardo di pensieri, ma al contempo siamo sicuri di aver espresso molto chiaramente quali siano i nostri sentimenti e la nostra considerazione di un’opera come questa, che arriva a pochi mesi da un’altra mina pazzesca, cioè quel Green Border di cui spesso abbiamo tessuto le lodi, scandalizzati di non vederlo agli Oscar.

Storie di persone, di relazioni umane, per scoprire come la violenza si nasconda nella normale quotidianità di tutti noi.

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